
Sulle prime opere di Felice Filippini, pubblicato dall’editore Pedrazzini Locarno. La grafica dello studio NSG C. Berta di Bellinzona… Vedi sotto allegato di tutti i collaboratori



Un testimone della lotta con l’angelo 1939 cm. 43 X 147 olio

La nevicata di giugno 1943 cm. 27 X 36 tempera

I Re tristi 1948 cm. 34 X 23,5 tempera

Soldati che dormono 1941 cm. 46 X 35 tempera

Concerto grosso 1942 cm. 149 X 97 olio

La melanconia lombarda 1940 cm. 100 X 100 olio

La traversata del Mar rosso 1943 cm. 65 X 47 tempera

Festa campestre 1949 cm. 81 X 51 affresco

1950 “Ragno di sera,” romanzo (Mondadori, Milano) che appare anche nella traduzione francese.
” I sette peccati capitali”, dramma radiofonico (” Radiodramma”, Alessandria)
Felice Filippini, l’artista a 360 gradi. “Il mio maestro, con lui e da lui ho imparato tutto!”.
Intellettuale a tutto tondo
Non c’è una mostra importante a celebrare la figura di Felice Filippini nel centenario della nascita, che cade domani, 20 giugno. L’ultima grande retrospettiva dedicata all’artista si è tenuta a Casa Rusca a Locarno nel 2015, una rassegna che presentava il suo lavoro in modo organico, e che oggi appare come un omaggio anticipato e un sicuro riferimento per chi si vuole avvicinare al suo mondo. In realtà il dibattito su Filippini non si è mai placato e non può ancora dirsi risolto. Nel corso degli anni vi sono state tante iniziative che lo hanno celebrato, ma ancora nel 2005, nel catalogo che accompagnava la mostra di Villa dei Cedri, Felice Filippini (1987 – 1988). Scrittore di immagini, Maria Will concludeva dicendo: «a tutto oggi, Felice Filippini, la cui estesissima e poliedrica attività non può non impressionare, resta una figura scomoda e, nella sua unicità, ancora da contornare››.
Già, una figura poliedrica e ancora controversa, ma perché? Felice Filippini, scrittore, pittore, animatore di trasmissioni culturali alla radio, ha avuto la «colpa» di essere un intellettuale a tutto tondo, un uomo brillante, dalla personalità prorompente, una sorta di monumento dell’arte ticinese del Novecento, che ha prodotto moltissimo (i diecimila dipinti che dichiara in un’intervista sembrano davvero tanti) e che perla sua unicità risulta difficile da inquadrare. La critica lo ha appoggiato negli anni giovanili, e forse un po’ abbandonato in quelli successivi. Lui è sempre stato convinto del suo «fare pittura», del suo essere intrinsecamente artista e ha sempre messo l’uomo al centro della sua arte.
Eppure, cento anni non sembrano ancora sufficienti per un giudizio distaccato sul suo operato: la sua figura è ancora presente e le sue creazioni attorno a noi. Ce lo chiediamo ancora una volta: chi era veramente Felice Filippini? `Gli aneddoti sull’uomo ancora oggi si sprecano. Padre amorevole con i figli, ma persona controversa, un po’ strana, sicurame nte un generoso. Filippini che sostiene i giovani artisti acquistando le loro opere. Filippini al Ristorante Gambrinus a Chiasso con Morlotti, Dobrzanski, Usellini, Pedroli e L’antiquario Tavecchio: mangiano ventresca, caviale e pane tostato, e Filippini paga il conto per tutti. Potremmo continuare a lungo se l’immineza del centenario non ci richiamasse alla sua prima opera, fra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, quando realizza delle grandi tempere con creature antiche, quasi mitologiche, nelle quali emergono i legami con il Nuovo primitivismo italiano di Birolli, Scipione e Sassu, che si innestano a un aspro primitivismo di origine nordica.
Urgenza di dipingere
Sono opere originali, quasi degli affreschi intelati, perché tanta è l’urgenza di dipingere e di mostrare a tutti. Un’urgenza che segnerà tutta la sua produzione se, come scrive Flaminio Gualdoni, nel saggio in catalogo che accompagna la mostra di Casa Rusca del 2015, «la scelta di coltivare un’iconografia bassa e popolaresca, fatta di giostre e bambini, fiere paesane e poveri amanti, situazioni domestiche e musicanti (va ricordato che tra i talenti coltivati da Filippini figura anche la musica, passione che condivide con la moglie Dafne Salati, pianista, e che passa sontuosamente ai figli Rocco e Saskia), folle anonime e scene sacre declinate su passo della devozione popolare, e di farlo delineando con furioso rigore una lingua pittorica anaccademica, è il suo sentirsi vivere ben calato in una realtà che gli appartiene e a cui appartiene, di cui farsi non il cantore ma certo, nel suo singolarissimo trasfigurare, testimone».
L’incontro con Giacometti
Ama Rembrandt, Caravaggio, Bacon e più tardi Giacometti. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il clima culturale muta in tutta l’Europa e anche la pittura di Filippini risente di quello sfaldarnento della pittura, di quell’accelerazione del gesto e si confronta con l’informale. Lo snodo importante all ‘interno del suo operare avviene nei primi, anni Sessanta, con la serie dei Ritratti a Alberto Giacometti. La pittura diventa trasfigurazione, tensione interna, rappresentazione della morte, dell’assenza: opere altissime, in cui risulta difficile capire dove finisce l’immagine di Giacometti e dove inizia l’autoritratto di Filippini. Ancora una volta Filippini si guarda dentro, si interroga sul suo ruolo, in un sentimento di precarietà che toccherà con mano, e trasferirà sulla tela, dopo l’incidente automobilistico, di cui è vittima agli inizi degli anni Settanta. Impressionanti sono gli autoritratti di quegli anni: l’uomo, l’artista, è una macchia di colore rosso, più forte di tutte le «macellerie» che la storia dell’arte ci ha consegnato, perché il suo dolore prende la tonalità del sangue. Capolavoro di questi anni è il grande affresco Il dramma dell’attualità, realizzato per il Centro RSI di Comano, in cui Filippini, con tratto libero, a volte concitato, riprende figure e temi che aveva indagato in gioventù. Il cerchio dunque si chiude? Non abbiamo una risposta certa ma ci piace pensare di sì, poiché nel suo lungo operare Felice Filippini sembra presentare un’unica grande opera omnia.
BIOGRAFIA
Scrittura, radio e altre forme espressive
Felice Filippini nasce il 20 giugno 1917 ad Arbedo. Dopo le scuole dell’obbligo, si iscrive per un semestre al Technicum di Friburgo e segue corsi di tedesco e di disegno al Liceo Maria Hilf di Svitto. Nel 1937 si diploma alla Magistrale a Locarno; nel frattempo si avvicina all’arte lavorando nell’atelier di Ugo Zaccheo e poi con Carlo Cotti. Dal 1938 lavora a Radio Monte ceneri come archivista; dal 1945 al 1969 dirige i servizi parlati della radio. Nel 1940 sposa la pianista Dafne Salati, da cui avrà Rocco (1943) e Saskia (1946). È attivo in campi diversi: dopo le prime prove come sílografo e pittore, si appassiona alla pittura murale, eseguendo numerosi affreschi in chiese ed edifici pubblici. Contemporaneamente è autore di una vasta produzione saggistica, teatrale e poetica, a cui affianca racconti e traduzioni dal francese e dal tedesco. Il romanzo d’esordio, Il Signore dei poveri morti, pubblicato nel 1943 diventa un caso editoriale e viene subito tradotto in tedesco e francese. Tiene le prime esposizioni personali e nel 1946 vince il Premio Gottfried Keller. Nel 1956 esegue La festa delle nozze in Ticino, dipinto murale presso il Palazzo del Governo cantonale a Bellinzona. La sua attività poliedrica lo porta a illustrare molti libri; negli anni successivi esegue anche alcuni arazzi, sculture e rilievi. Nel 1962 a Villa Ciani a Lugano si tiene la prima grande antologica. Nel 1965 l’incontro con Alberto Giacometti lo segna profondamente. Agli inizi degli anni ’70 ha un grave incidente automobilistico
Muore a Muzzano nel 1988.
LA TESTINIONIANZA ROCCO FlLlPPlNl
«La figura di mio padre rimane molto presente nelle nostre vite» Felice Filippini non c’è più da molto tempo ma in realtà è ancora molto presente nella vita dei suoi figli e dei suoi nipoti. Rocco Filippini, violoncellista di fama internazionale e primogenito dell’artista, ricorda quanto intenso fosse il rapporto che lo legava al padre. «Lui era un amico per me e io ero un amico per lui. l io ricordi bellissimi, eravamo più che un padre e un figlio. Abbiamo fatto tanti viaggi e mia sorella e io abbiamo trascorso molto tempo con lui, gli abbiamo fatto anche da modelli››. «Certo racconta ancora Filippini – era un uomo’ dall’attività paurosa, lavorare era più forte di lui, e questo toglieva un po’ di auspicata presenza. Si alzava la mattina e cominciava con le traduzioni, poi andava alla radio dalle otto alla una e nel pomeriggio dipingeva in atelier». Chiediamo se Felice Filippini aveva una predilezione particolare per un periodo o per un dipinto eseguito nel suo lungo percorso. «In realtà i creatori considerano la loro ultima opera come la migliore, altrimenti significherebbe ammettere di essere andati indietro. Credo che mio padre amasse molto il grandioso affresco che si trova nell’atrio d’entrata dello stabile della RSI a Comano. Poi tanti dicono che la sua opera giovanile era bellissima, ma anche le opere degli anni Sessanta sono considerevoli, quando lo stile cambia, ed è come se si liberasse, per scoprire una pittura più violenta, quasi furiosa». Rocco Filippini ricorda che la loro casa era frequentata da figure importanti della cultura del Novecento. «Ungaretti Dürrenmatt, personaggi che lo hanno segnato. Mio padre ha avuto la fortuna di mantenere i contatti con l’ Italia subito dopo la guerra, e invitava poeti, scrittori, pittori alla radio a Lugano, che all’epoca era una specie di radio libera». Per Rocco Filippini le celebrazioni del 20 giugno rappresentano un ricordo, in fondo Felice è ancora presente capillarmente nelle loro vite. «La casa in cui mi trovo adesso a Savosa, è l’abitazione cui sono cresciuto, e sono trascorsi quasi settant’anni. È appena stata restaurata dai miei figli Cosimo e Zeno, ci , anno impiegato quasi un anno. E sempre i miei figli si occupano dell’Archivio Filippini di Manno, dove sono conservate centinaia di opere da ordinare, catalogare e conservare