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“LACEDONIA DAL MEDIOEVO AL XX SECOLO” Pubblicato dall’Associazione Culturale Lacedonia.

cover lacedonia dal xx secolo (3)

Presentazione del Professore Enzo Di Gironimo, dirigente scolastico Istituti Superiori Napoli.

Foto Michele Bortone

Presenta documenti inediti, scovati negli archivi di stato, delle abbazie, della diocesi e in quelli segreti del Vaticano, documenti che riguardano fatti ed eventi non trattati da altri studiosi per la difficoltà di reperire fonti a cui riferirsi.Ci ha dimostrato così che queste fonti esistono e che possono essere rinvenute lavorando con passione, sacrificio anche economico, umiltà, competenza e tanta, tanta pazienza. Vuole essere così di stimolo, di “sveglia” per i giovani ricercatori (e ce ne sono di validi e capaci), per rinnovare e approfondire studi sulle nostre sfortunate e spesso neglette zone. E questo, a mio parere, è il merito principale del lavoro di cui stiamo parlando.

Le sue fonti sono essenzialmente letterarie ed archeologiche: Livio, Plinio, Tolomeo, Ughellio ed altri autori e reperti rinvenuti o personalmente da lui o di cui ha avuto notizie.Ha rappresentato il punto di riferimento (sia di accettazione di quello che scrive o in polemica e contraddizione) per tutte le altre numerose pubblicazione avute poi nel corso di questi ultimi decenni come quelle – ne cito semplicemente alcune – a cura del Circolo Culturale “T. Arminio”, di Saponiero, Caggiano, Vigorita, Chicone, Michele D’Avino, Bardaro, Pepe. L’ultima, di cui ho notizia, è la pregevole e documentata opera di Nicola Fierro “Aquílonia in Hirpinis”- che riguarda Lacedonia in età Sannitica e romana, pubblicata, questa estate, a cura dei Gruppo Archeologico AKUDUMNIA, diretto dal giovane scrittore Michele Miscia.

Altre fonti sono il MOMMSEN – che nel IX volume del Corpus Inscriptionum Latinarum esamina e descrive alcune epigrafi di epoca romana rinvenute a Lacedonia e nel circondario, Camillo Porzio per quanto riguarda la Congiura dei Baroni del 1486 e Pacichelli G.B. autore de “Il Regno di Napoli in prospettiva” del 1703.

Una prima domanda: quando viene fondata Lacedonia?

Le origini sono avvolte nella leggenda. Palmese ne discute a lungo: molto probabilmente è di origine Osca, più precisamente sannita, nella determinazione irpina.Gli Osci appartenevano (come gli Umbri, gli Etruschi) a quelle popolazioni “italiche” che popolarono la nostra penisola intorno al primo millennio a.C.. Popolo di pastori che durante le migrazioni dovute alla ricerca di pascoli migliori si insediavano nei punti che ritenevano più strategici, fondando villaggi. Quando aumentavano di numero in modo eccessivo, ricorrevano al rito del “Ver Sacrum”: un anno veniva proclamato sacro e tutti quelli che vi nascevano, una volta raggiunta la maggiore età , venivano espulsi dalla comunità e costretti quindi a ricercare nuove terre e fondare nuovi villaggi. Ecco, i nostri paesi potrebbero essere nati così.

Nelle nostre zone questi giovani sanniti sarebbero arrivati tra il VI – V sec. a. C.. I primi insediamenti potrebbero essere stati nelle grotte scavate nel tufo,” sotto le rupi”, per intenderci. Lacedonia, come sappiamo, sorge su un banco tufaceo, determinato da una nube ardente (ignimbrite) dovuta ad eruzione vulcanica, del Vulture, probabilmente. Il suo primo nome (e questo è ormai certo) è “AKUDUINNIAD”, o Akudunnia – senza la “d” finale- così come risulta da alcune monete bronzeo che recano, sotto l’effigie di Atena, la scritta “coniate in Akudunnia”. Se aveva la possibilità di battere moneta, vuol dire che era una cittadina importante, fortificata, con un esercito proprio.

Da Akudunnia, come sostiene il D’Avino nel testo “Akudunnia, oggi Lacedonia degli Irpini”, attraverso passaggi successivi, Aquudonnia, Aquiddonia, Aquilonnia, si pervenne al nome Aquilonia, con cui fu conosciuta durante il periodo della romanità, come attesta anche il Mommsen, citando Plinio e Tolomeo.Come poi si sia passati da Aquilonia a Lacedonia è lo stesso D’Avino a prospettarcelo. La variazione avviene nella “parlata locale”, nel dialetto, direttamente dalla trasformazione dell’originale Akudunnia, con Cidogna, Cedogna (“Cerogna” nel nostro dialetto), La Cedogna, Lacedogna ( una sola parola), e infine Lacedonia.

Il primo stemma, comune a molte popolazioni transumanti di origine sannitic – írpina, fu la testa di Toro sormontata da due stelle; successivamente l’aquila bicipite ( in abbinamento al nome Aquilonia ) fino al Medioevo, poi quello attuale, la Cicogna con un serpente nel becco. Sarebbe interessante, e non solo per il fatto in sé, studi siano avvenute queste trasformazioni araldiche.Le vicende di Aquilonia sono strettamente legate a quelle riguardanti le guerre sannitiche, che si trascinarono per vari decenni fino a concludersi, con la vittoria di Roma, nella famosa battaglia di Aquilonia del 293 a.C. di cui Livio parla a lungo nel X libro delle sue Storie.

Ma qui è sorta una polemica tra gli storici: l’Aquilonia di cui parla Livio è l’Aquilonia degli Irpini, cioè la nostra Lacedonia, o è un’altra da collocare nel Sannio più interno?(Vedete come è difficile fare storia quando mancano documenti certi e si lavora su interpretazioni). Pur partendo dalle stesse fonti gli storici hanno espresso tesi diverse, spesso contraddittorie. L’ultima, in ordine di tempo, è quella del valente studioso bisaccese prof. Nicola Fierro, ispettore onorario della soprintendenza alle antichità archeologiche. Nel testo già citato “Aquilonia ín Hirpínis”, l’autore individua proprio nel territorio della nostra Aquilonia – Lacedonia, e precisamente nell’arca del Calaggio, il luogo della battaglia finale del 293 tra la legione linteata dei Sanniti e le legioni romane, risultate poi vincitrici. “In quel momento – dice Fierro – Aquilonia fungeva da capitale del Sannio libero… Le monete bronzee con l’effigie di Atena e con la dicitura Akudunnia – citate anche dal Devoto – potrebbero essere proprio di questo periodo”.

Si parte dal Medioevo, quindi. Un periodo lungo, difficile, che vede crollare dolorosamente e rovinosamente una civiltà, quella romana, ma che vede anche germogliarne una nuova, quella europea, con la “fusione” dell’elemento latino con quello germanico nello spirito del Cristianesimo ormai trionfante.Prima di addentrarci sulle vicende narrate nel testo, ritengo però opportuno delineare brevemente la storia di Lacedonia nel cosiddetto evo antico.Il primo nostro storico fu Pasquale Palmese, (1801 – 1882) “canonico cantore della Chiesa cattedrale e cancelliere della curia vescovile” (così come egli stesso amava definirsi), autore del testo pubblicato a Napoli nel 1876, sintesi di un voluminoso manoscritto conservato presso la biblioteca del Seminario vescovile e ripubblicato a Salerno nel 1924 con il titolo “Notizie storiche- cronologiche di Lacedonia”.

Dopo la sconfitta, dovuta anche all’alta strategia militare dei comandanti romani (sul campo rimasero uccisi ben 24340 combattenti e ne furono fatti prigionieri 3870), Aquilonia veniva incendiata e distrutta e la popolazione costretta a fuggire per il Pauroso, a cercare scampo nei boschi fin nei pressi di Montella. Stessa sorte toccava a Cominio, l’attuale Monteverde. Con la romanizzazione Aquilonia lentamente si riprendeva. Nulla di certo si sa sulle vicende legate alle guerre contro Annibale. Palmese sostiene che Aquilonia, con altre cittadine del Sannio irpino, avesse parteggiato per Annibale per vendicarsi della sconfitta subita. Questa tesi non sempre è accettata da altri studiosi. Di certo si sa che nel 90 Aquilonía aveva già ottenuto, come altre cittadine italiche, la cittadinanza romana e veniva retta da un quadrunvirato. Riacquistata importanza, annoverava terme e monumenti notevoli (come attestato dalle lapidi , descritte dal Mommsen) e da altri reperti trovati dal già citato gruppo archeologico e studiati da Fierro (gli ultimi ritrovamento, proprio di questi giorni, a Serrone, sono stati un cippo in onore di Ercole vincitore ed un altro, funerario, con invocazione agli Dei Mani). Si annoverava, in città, anche un tempio dedicato alla dea Iside”, facendo ipotizzare – a questo studioso – o la presenza in città di un gruppo etnico di origine egizia o che la borghesia locale faceva affari d’oro con i mercanti egiziani che praticavano il commercio lungo la via Appia”.

Sulle rovine di questo tempio è stata poi edificata la chiesa di S. Maria la Cancellata., come vuole la tradizione, attestata, come pare, dai numerosi reperti trovati durante i restauri alla struttura della chiesa. La storia di Aquilonia – Lacedonia ormai era legata alle vicende di Roma.Palmese, citando l’Ughellio e la sua “Italia sacra” e Tolomeo, ipotizza che Aquilonia, con Abellinum Aeculanum e Fratuentum, avesse abbracciato la fede cristiana, sin dai tempi della predicazione di S. Pietro, e che già intorno al 400 d.C. fosse sede vescovile. Ipotesi per un canonico suggestiva, molto probabilmente valida, non suffragata, però,are come  da documenti certi.Con la caduta dell’Impero e con le prime invasioni barbariche anche per Aquilonia – Lacedonia incominciarono i tempi tristi. Addio antichi fasti, addio prestigio. Anche gli storici sembrano fermarsi oppure affrettano la loro narrazione.

Il Palmese, invece, … accelera e riduce in poche pagine oltre mille anni di storia. Altre pubblicazioni fanno altrettanto e corrono subito al 1486, alla Congiura dei Baroni. Non hanno a disposizione archivi da consultare, né reperti archeologico sepolti o distrutti per terribili terremoti. Si ha memoria storica del sisma del 989 e soprattutto di quello disastroso della notte tra il 4 e 5 dicembre 1456. Lacedonia fu rasa al suolo. Per ricostruirla, come già per il passato, si fece ricorso al materiale esistente in loco. E così i pezzi degli antichi templi, i marmi delle terme, dei palazzi le pietre tombali, i mosaici scalpellati, spezzati, adattati diventavano soglie, architravi, spigoli, riempitivi (come i frammenti di mosaico ritrovati tra le intercapedini delle mura di S. Maria) per ricostruire nuove ma modestissime case, segni della miseria dei tempi.

E proprio da questi tempi tristi dell’Alto Medioevo inizia questo libro. Carmine Ziccardi, come tutti ormai sapete, è archivista di professione, anzi è il direttore amministrativo dell’archivio di Stato dì Pavia. Poteva mettere il naso dappertutto anche nelle carte segrete del Vaticano e lo ha fatto con passione, con spirito critico, ovviamente con competenza, e ha ricavato notizie non soltanto su eventi bellici che riguardavano i “Signori”, i Principi, i Baroni, ma sulle condizioni di vita dei veri protagonisti della storia: le persone comuni, gli umili, i sudditi. E lo ha fatto, pubblicandole in varie riviste specializzate, in articoli in questo testo riuniti e raccolti.Questi lavori, pur essendo redatti in tempi diversi, mostrano – come ho scritto nella presentazione – una linea di continuità di ispirazione braudeliana. Riguardano, infatti oltre alla necessaria narrazione degli eventi più importanti i movimenti demografici, le tasse, i matrimoni i mestieri i mezzi di trasporto e di comunicazione che ci fanno capire come vive un popolo, come questo si evolve nei tempi.

Se avessero voluto fare altrettanto gli studiosi che si sono occupati delle vicende dell’età antica, non avendo tra le mani documenti specifici, avrebbero dovuto fare ricostruzioni basandosi in generale, sulla vita degli antichi romani e delle popolazioni italiche, ricavando informazioni dalla letteratura, dall’arte, dall’archeologia, perché di specifico sulle nostre zone e su Lacedonia non vi è nulla. Anche io, pertanto, mi sono limitato a raccontarvi, come introduzione, eventi salienti di natura essenzialmente bellico- politica. E veniamo al testo. Siamo intorno al 500 d.C. La civiltà romana è profondamente in crisi. I Barbari scorrazzano nella nostra penisola: incendiano, depredano, uccidono. Le popolazioni terrorizzate fuggono dalle campagne, spesso distruggendo strade e ponti per rallentare le invasioni. Inutilmente! Guardiamo che succede a Conza, dice Ziccardi prendendola come punto di riferimento per illustrare la situazione alta-irpina.

L’antica famosa Compsa, posta in posizione strategica, 15° provincia ecclesiastica della cristianità, archidiocesi che aveva come suffraganee tutte le diocesi dell’alta Irpinia, (da Lacedonia a S. Angelo, a Nusco, a Muro Lucano… ) viene assaltata e occupata dai Goti nel 524 circa, dai Bizantini nel 555, dai Longobardi nel 591. Immaginiamo con quanta gioia di quella popolazione depredata e vessata ogni volta da nuovi padroni. Eppure, con i Longobardi riesce a riprendersi tanto da essere scelta come capoluogo di un cospicuo gastaldato. Ma orinai si vive di stenti e di miseria. Stessa sorte subisce Aquilonia – Lacedonia che ritroviamo facente parte della contea di Benevento (Oggi Conza – commenta amaramente Ziccardi – non esiste quasi più. Distrutta dal sisma del 1980, è stata ricostruita lontana dal sito originario. Dell’antica importanza non resta che il ricordo, dell’Arcidiocesi soltanto il nome).

La storia di Lacedonia, come quella di Conza, è da questo momento soprattutto storia della sua diocesi. Per gli studiosi è una fortuna; d’ora in poi la ritroviamo, così, nelle fonti ecclesiastiche, le uniche esistenti. Infatti, nel periodo in cui – come dice il Desideri – infuriava la tempesta barbarica e in mezzo ai disordini, alle violenze, alle stragi crollavano tutte le civili istituzioni, proprio intorno ai monasteri benedettini sorti anche da noi come illustra Ziccardi a pag, 15, incomincia a sorgere il modello di una nuova società non più fondata sulla violenza e la conquista, ma sull’amore e sulla solidarietà collettiva un nuovo tipo di società e una nuova concezione della vita che aveva il suo fondamento nel cristianesimo evangelico.

E proprio intorno ai monasteri – scrive il Morghen – veniva a ricomporsi in nuclei vitali la società sconvolta dalle invasioni barbariche; i contadini andarono a raggrupparsi in cerca di protezione e dietro l’esempio dei monaci presero a dissodare le terre incolte e a ripopolarle, facendo risorgere la coltura della vite e quella dell’ulivo da tempo abbandonate. I monaci tra l’altro, erano gli unici, e non tutti ovviamente, che avevano una certa cultura, per cui diventarono il punto di riferimento anche per dirimere questioni di ordine legale. I registri dei battezzati, cresimati dei matrimoni e dei defunti, ad es., sono stati per secoli (almeno fino alle riforme napoleoniche, murattiane da noi – 1815 / 20 circa) gli unici registri anagrafici. Quindi, anche da noi intorno al monastero di S. Salvatore situato vicino alla cattedrale, risorge la vita, un po’ meno misera meno povera.

Sconfitti i Longobardi, Lacedonia passa sotto i Normanni (Nel 1059 è Vescovo Simeone. Lo troviamo registrato tra i Vescovi partecipanti coi Papa Niccolò Il al Concilio di Melfi e alla consacrazione della Chiesa di S. Michele a Monticchio). Passa poi sotto gli Svevi e gli Angioini. Le vicende narrate da pag. 16 a pag. 22 sono ben documentate (i testi sono riportati nelle note in lingua originale). E passiamo ai paragrafi, per me più interessanti dei primo capitolo: “Fuochi e tasse di Lacedonia e dintorni”, “Vicende demografiche e controversie feudali”.Sono importanti perché ci fanno capire le reali condizioni di vita della nostra popolazione. La nostra gente, dicevo prima, è passata dalla dominazione normanna, a quella sveva di Federico Il che amava queste terre e a Melfi, già eletta dagli Altavilla capitale dei propri possedimenti in Puglia, promulgò nel 1231 le Constitutioni melfitane che, se attuate , avrebbero trasformato il Regno di Sicilia da stato feudale, cioè non-stato, a stato moderno, razionale, efficiente, con due secoli di anticipo sulla storia europea.

I Lacedoniesi come le altre popolazioni irpine e del l’intero regno, vedono migliorate, sempre nel quadro generale dell’indigenza e della miseria, le proprie condizioni di vita, partecipando alla cosiddetta Rinascita intorno all’anno Mille. Erano state apportate, infatti delle innovazioni nel campo dell’agricoltura: piccole cose che hanno fatto la storia! L’introduzione dell’uso del collare a spalla per cavalli e muli invece della cinghia sottogola che impediva la piena respirazione, la ferratura degli zoccoli, avevano aumentato la capacità di tiro degli animali, per cui si poté passare dall’aratro a chiodo a quello a vomero con le ruote. Arando più profondamente, le sementi non andavano perdute. La rotazione agricola, per cui si passò dall’avvicendamento biennale a quello triennale con l’introduzione di nuove colture per la fienagione, sperimentate dai monaci portò all’aumento notevole della produzione delle derrate alimentari. Si poteva mangiare di più e quindi si poteva vivere meglio. E la popolazione aumentò anche nei nostri villaggi (delle città che furono forse si conservava qualche vago ricordo).

Ma arrivarono gli Angioini e aumentarono le tasse! Più famiglie (dette fuochi) – come si precisa nel glossario a pag. 188 – più soldati da fornire al Re e se non si vuol fare il soldato più tasse da pagare. E le povere comunità (o universitas) tentavano di imbrogliare le carte (“re fa fesso l’esattore”) riducendo il numero dei fuochi. Ma questi se ne accorse e arrivò la multa. Lacedonia, leggiamo a pag. 24, fu costretta a pagare altre 8 once e sette tarì e mezzo. Ma siccome le comunità, sempre più vessate e affamate non perdono il vizio, arrivano altre mazzate. La Corte ingrassa e si diverte, fa le guerre e la povera gente paga, diventando sempre più povera!

Dalla lettura di questi paragrafi, apprendiamo inoltre come funzionava il sistema amministrativo feudale del Regno di Sicilia diverso da quello di stile carolingio del resto d’Italia, d’altra parte già tramontato per far posto ai liberi Comuni. Qui notiamo l’intervento diretto del Re a favore delle comunità di Lacedonia e Monteverde: i feudatari non sono i padroni assoluti ma debbono dar conto delle loro azioni alla Corte che può disporre sempre dei benefici e dei territori concessi; stesso trattamento per gli Abati e i Vescovi. Apprendiamo anche che fine abbiano fatto gli archivi del periodo angioino: perduti per ignoranza, incuria, guerre (pag.28).

Dopo gli Angioini ecco gli Aragonesi. Lacedonia passa da un Signore all’altro. E le vicende sono ben documentate: La “Congiura dei Baroni, del 1486, contro Ferrante (succeduto al padre nel 1458), uomo duro e senza scrupoli che si fece odiare da tutti, le controversie economi – giuridiche intentate alla fine del medioevo, nei confronti dei vari baroni, per questioni di possedimenti di tasse, di usi civici e in modo particolare contro il principe di Melfi, i cui esiti si trascinarono fino alle soglie dell’età contemporanea, con l’eversione delle feudalità.

Ziccardi è opportuno precisarlo, di questo lungo periodo ci ha dato le notizie inedite, tratte – come dicevo – da fonti di archivio – sorvolando volutamente su quanto già narrato su altre pubblicazioni, tipo il terremoto disastroso del 1456, (quando la gente fu costretta a ritornare ad abitare nelle grotte, sotto le rupi prima della ricostruzione incoraggiata ed aiutata dagli Orsini, feudatari del momento, fatta proprio, per maggiore sicurezza sul banco tufaceo ( situato più a monte dell’antico abitato ), su cui ancora oggi sorge la “cittadella’. Ecco perché la vecchia Cattedrale (S. Maria la Cancellata) venne a trovarsi fuori città; la costruzione del nuovo castello nel 1508 con i Pappagoda, l’avvicendarsi dei vescovi. Il suo merito, voglio ripeterlo, è proprio quello di scovare nelle fonti archivistiche quanto finora sconosciuto specialmente nei periodi cosiddetti bui rimandando e lo dice esplicitamente nelle note ad altre pubblicazioni la ricerca e l’ampliamento di notizie già note. Ed io sto facendo altrettanto. Mi sono soffermato maggiormente su aspetti poco noti e discussi mentre sto sorvolando su quelli noti o accettati da tutti. Dei Vescovi ad esempio, grazie al Palmese, canonico sapevamo molto, mentre delle istituzioni laiche non si sapeva quasi nulla . Ecco, qui è intervenuto Ziccardi con le sue ricerche di Archivio. Lo studioso, ora, trova ulteriori spunti per continuare a ricercare, ad approfondire.

Nel secondo capitolo, ” la Diocesi di Lacedonia” nel ‘600, Ziccardi prende in esame le “Relazioni ad limina apostolorum” presentate dal Vescovo Bruni dal 1631 al 1634 perché offrono un’abbondanza di notizie sui luoghi pii, sulla popolazione, sulle chiese, sui beni ecclesiastici sul clero e sulla vita religiosa, sulle confraternite, sui benefici, sui consumi del popolo e sui monasteri e costituiscono una fonte dalla quale si traggono moltissimi dati importanti. Apprendiamo ad es. che rispetto agli abitanti, 1200 circa, vi sia un elevato numero di canonici, ben dodici che hanno un’entrata di 70 ducati l’anno. Non è una gran cifra, comunque di molto superiore a quella di un povero contadino. Si può ben capire come fare il prete, il più delle volte, non era frutto di vocazione religiosa, ma un modo per assicurare una vita meno grama a se stesso e ai propri familiari, oltre che una questione di prestigio sociale.

Alle alte cariche, nell’ambito del Capitolo, accedevano i rappresentanti  di quella borghesia terriera che si stava lentamente costituendo. Si spiega così l’ignoranza di alcuni di essi e la moralità non certo irreprensibile (solo più tardi sorsero i Seminari per la preparazione dei Sacerdoti). Le relazioni mettono bene in luce tutto ciò e soprattutto l’estrema degrado morale ed economico in cui versano i fedeli. Ed in queste situazioni anche il possesso di una “stanza ” – piccolo appezzamento di terreno – diventa oggetto di liti tra la comunità e il Vescovo. Questi ad es. sostiene che è necessario aumentare le multe per evitare di sentir maledire e bestemmiare in chiesa. La religiosità, quindi è più esteriore che sentita se il Vescovo Pedoca, uomo di grande cultura e noto matematico, appena insediato in Diocesi, attuò una serie di iniziative miranti a rinsaldare la fede; a ricordo di queste fece sistemare, nel 1587, all’ingresso della città quella colonna di travertino sormontata da una croce, che vediamo ancora oggi prima di imboccare la “tagliata”.

Questo capitolo – dicevo – va ad interarsi perfettamente con quanto scritto nell’ottimo lavoro “La Diocesi di Lacedonia nell’Età moderna” dal giovane compianto storico Giovanni Libertazzi di Rocchetta S.A. Altro capitolo interessante è il terzo: “La platea del feudo di Lacedonia” – pubblicato la prima volta su VICUM nel ’92. Dopo una necessaria ed istruttiva introduzione sulla particolare istituzione feudale delle nostre terre tra ‘600 e ‘700, si passa ad esaminare la situazione dei feudo di Lacedonia, attraverso una ricerca minuziosa dei documenti esistenti in proposito, verso la fine del 1700. Risulta subito evidente che l’intero territorio apparteneva, oltre che al feudatario di turno, a poche famiglie benestanti o di piccoli proprietari da cui dipendevano poi altri contadini, coloni, braccianti. Molti cognomi sono presenti ancora oggi, altri sono ormai scomparsi.

Dal 1559 (Pace di Cateau – Cambresis) il Regno di Napoli è sotto il dominio spagnolo che durerà fino al 1713. Dopo una breve parentesi austriaca, arrivano i Borboni. Non mancano in questi periodi episodi banditeschi. Nel 1682,- scrive Libertazzi – ad es, l’intero paese fu preso d’assalto e saccheggiato da una banda di 80 uomini – capeggiata da Giovanni Botta, l’albanese, che sequestrò a scopo di ricatto il Vescovo Bartoli e alcuni cittadini meno poveri terrorizzando la popolazione che fu costretta a fuggire. Qualche decennio dopo, lo leggiamo nella cronologia a pag. 185, nel 1696 il Vescovo La Morea pose la prima pietra della nuova cattedrale, completata nel 1766 e inaugurata il 19 ottobre dal Vescovo Niccolò D’Amato. La Chiesa di S. Antonio, posta al centro della città e che fungeva da cattedrale durante il periodo invernale, era stata notevolmente danneggiata, come gran parte delle case, dal terremoto dell’8 settembre 1694. Cambiano, nel frattempo i feudatari, non cambiano molto le condizioni di vita dei popolo. Anzi l’aumento demografico accentua il disagio per cui per vivere si sfrutta ogni spazio utile. L’eversione della feudalità, tra il 1808 e il 1810, porta qualche beneficio, soprattutto tra i piccoli proprietari terrieri, che vanno a costituire la nascente, modesta borghesia locale. La spedizione garibaldina e il passaggio dalla monarchia borbonica a quella sabauda non crea ribellioni e rivolte sociali come quella, drammatica, dell’ottobre 1860 nella vicina Carbonara, ma il coinvolgimento diretto di Lacedonia e di vicini paesi nell’ancora oggi discusso fenomeno del brigantaggio. (Ma di questo parleremo tra poco).

Nel 1878 c’è, finalmente, un evento lieto ed importante per la storia, anche personale, di gran parte di noi: Francesco De Sanctis fonda la Scuola Normale dell’Alta Irpinia, l’attuale Istituto Magistrale. E andiamo ai cap. IV (La Diocesi di Lacedonía ” ‘800 e ‘900 nella relazione del Vescovo Zimarino) e V (La società e l’istruzione a Lacedonia all’inizio del ‘900 dai registri matrimoniali). Questi capitoli sono strettamente collegati dalla stessa linea interpretativa, anche se pubblicati in anni e riviste diverse. Ci fanno conoscere, dati alla mano, la situazione storico sociale che ha determinato quegli atteggiamenti culturale, quei fermenti politico – sociali e soprattutto le grandi emigrazioni che hanno caratterizzato le vicende del mezzogiorno e dei nostro paese in particolare, specialmente nella seconda metà del ‘900. Il quarto capitolo è stato pubblicato nel ’91 su “Rassegna storica irpina” e contiene le due Relations ad limina del nov. 1898 e del nov. 1903 del Vescovo Zimarino, che aveva assunto la guida della diocesi nel 1896.

Tiro fuori qualche notizia.

La Diocesi conta nel ’98 dieci paesi: Lacedonia, Trevico, Carife, Castel Baronia, S. Nicola Baronia, S. Flumeri, Anzano, Rocchetta S. Antonio e Scampitella con circa 27.000 abitanti ed undici parrocchie, nel ’93 sale a 28.000. Il Vescovo descrive accuratamente lo stato in cui si trovano le chiese, misero in verità, e ci dice anche che in alcuni paesi si sono costituiti dei Monti di pietà frumentari, amministrato dai parroci e da laici anziani con lo scopo di distribuire ai contadini poveri il grano con un interesse minimo. Scrive pure che qualche sacerdote era stato sospeso “a divinis” per “i loro disordinati costumi”. A Lacedonia funziona un asilo infantile, che assiste ben 150 bambini, affidato alle Suore figlie di S. Anna e che svolge “un’opera provvidenziale per i figli dei contadini i quali sono continuamente, impegnati nel lavoro dei campi”. Il seminario, oltre al ginnasio, conta anche un corso superiore di Teologia per aspiranti sacerdoti. Alcuni parroci hanno deciso di abbreviare d’estate, il rito della prima Messa domenicale, eliminando la lettura del Vangelo, per poter permettere ai contadini di recarsi al più presto in campagna.

Il Vescovo lamenta “l’insufficiente disponibilità finanziaria sia del Capitolo che della Mensa vescovile, da cui cittadini indigenti attendono quotidianamente il necessario per la loro esistenza. Lacedonia – egli scrive, forse esagerando un poco – è per eccellenza la città della miseria, che domina tutte le famiglie meno pochissime che tirano innanzi con le usure”. Anche se con questo termine si indicava genericamente il prestito di danaro ad interesse, che poteva anche non essere esageratamente alto, il vescovo denuncia la presenza di spietati usurai che approfittano della miseria – dice testualmente – con illeciti interessi nelle somme che prestano. Deplora anche la corruzione dei costumi venuta anche, oltre che dall’emigrazione, dalla fondazione del convitto governativo maschile “vera fucina di perversione”.

Il quinto – capitolo è stato pubblicato su Samnium nel 1987. Riporta in sei tavolo statistiche, ricavate con un lavoro paziente e certosino dai registri matrimoniali, le condizioni effettive della popolazione lacedoniese. Riguardano, infatti: l’età degli sposi le professioni degli uomini che contraggono matrimonio, le condizioni delle donne, i matrimoni alfabetizzazione degli uomini, alfabetizzazione delle donne . Il perché di questa scelta, sullo stile della Scuola storica francese di “Annales”, lo spiega lo stesso autore alle pag. 128 e seguenti. I matrimoni sono indicatori precisi di situazioni storico sociali ed economiche: diminuiscono in periodi di carestia, di guerre, di calamità naturali di disgrazie in genere. In periodi scarso raccolto, il prezzo del pane aumenta sensibilmente e nelle zone a prevalente economia agricola – dice Marshal – nelle classi più povere ci si sposa di meno. La stessa cosa accade in periodi di forte emigrazione. Ad inizio di secolo, come sappiamo, si andava in America e spesso non si ritornava più.

Dall’età degli sposi dal grado di alfabetismo, dai mestieri dei contraenti matrimoni si ricavano notizie precise sulle condizioni di vita dei veri protagonisti della storia: noi. E le condizioni sono quelle che, non variando sensibilmente nel corso degli anni, hanno fatto sì che noi fossimo qui lontano dalle nostre avare montagne. L’approfondimento di queste tematiche, oggetto di studio di altre pubblicazioni, non poteva rientrare in questo lavoro che ha avuto, come stiamo vedendo, altri obiettivi. Il testo si chiude con una interessante appendice : “li brigantaggio in Irpinia dalla fine del 1700 al 1865”. Il brigantaggio è un fenomeno complesso, non sempre di facile lettura, variegato, che si manifesta particolarmente nelle regioni meridionali, ma – come giustamente scrive l’autore nelle note di pag. 149 – presente, in particolari condizioni, anche in altre regioni europee. In un periodo, quello attuale, caratterizzato, sul piano politico – culturale, da forti polemiche, determinate giusti tentativi di rivedere giudizi storici dati in momenti contingenti e forse emotivamente giustificabili, Ziccardi è riuscito a non farsi invischiare in posizioni faziose, ma a narrare fatti, vicende, a prospettare motivazioni dei vari aspetti dei fenomeno in maniera obiettiva, per quanto umanamente è possibile. Documenti alla mano ci descrive episodi accaduti durante il periodo francese, dopo la restaurazione borbonica e tra il 1861 e il ’65, nei maggiori centri dell’Alta Irpinia.

La lettura è piacevole, appassionante. Vi sono episodi di brigantaggio sociale di fine ‘700 (è il caso della banda Angiolillo che agiva a Calitri che rubava ai ricchi per distribuire ai poveri) – vedi pag. 151 – e fatti di vera e propria violenza che provocavano terrore e spavento tra l’inerme popolazione. Con la caduta della Repubblica partenopea dei 1799, le bande che avevano fiancheggiato i Sanfedisti del Cardinale Ruffo, profittando del periodi anarchia, commettono, in nome regio, vendette private, rapine e violenze. La stessa cosa avviene dopo la restaurazione borbonica. È sintomatico il caso di Andretta che Ziccardí esamina da pag. 159 a 162 su documenti ufficiali: le condizioni economiche e sociali, comuni a quelle di tutti i centri irpini determinarono l’abbandono delle campagne e i primi fenomeni migratori. Interessante anche la descrizione, con relativa analisi, di quanto accaduto dopo il crollo dei Borboni e l’affrettata unificazione nazionale con i Savoia. Le pagine non hanno bisogno di commento, sono da leggere prima tutto d’un fiato, poi con calma per discutere e riflettere. I mali che hanno causato il brigantaggio di allora e i fenomeni malavitosi di oggi (e non mi riferisco ai reati comuni – patrimonio purtroppo dell’umanità), l’abbandono delle campagne, le grandi emigrazioni che ancora oggi spingono tanti di noi operai e contadini, laureati e diplomati desiderosi di riscatto, di mettere a frutto le proprie energie e le proprie capacità – senza attendere il classico panariello dal cielo – sono stati risolti? C’è la volontà “politica” di farlo? O ne discuteranno ancora i nostri discendenti? Grazie a Dio, la gran parte di quelli costretti a far la valigia , di fibra, di cartone o simil pelle – a seconda dei tempi – per Napoli o per Torino, per la Svizzera o la Germania o per le Americhe, si è affermata, con sacrificio, con tenacia, facendosi apprezzare mostrando concretamente di che pasta è fatta la gente irpina. Grazie a Ziccardi che con questo ultimo lavoro ci ha offerto spunti per riflettere e per conoscere meglio la nostra storia. “L’uomo è come l’albero – diceva il filosofo Nietzsche – più affonda le sue radici nella terra, più si eleva in alto”, ma soprattutto grazie a voi all’associazione e al dinamico presidente Michele Bortone, che ne avete promossa con sacrificio, la pubblicazione.E grazie anche, per aver avuto la pazienza di ascoltarmi fino in fondo. GRAZIE!

Prefazione

Nel mondo della “globalizzazione” parlare di storia locale ed in particolare di una piccola comunità, Lacedonia, può sembrare anacronistico. Ma “proprio l’universalismo e l’attualità che sembrano eliminare la storia, invece spiegano il ritorno di fiamma verso la storia purché sia verso il particolare, egoista, e avversario di ogni altro particolare. Un vero universalismo e composto dalla certezza di quello che si è venuto man mano formando” sostiene il Prof. Giuseppe Acocella. Citando Fernard Braudel l’Acocella continua sostenendo che “il presente spiega il passato “perché” nessuna realtà attuale, cioè il presente, esiste se non in virtù di ciò che e stato e lo ha formato “e perché” il passato e integrato nel presente e ne forma la sostanziale verità più profonda”. Questo e un motivo che ci spinge a proporre una raccolta organica in un unico volume di una serie di studi pubblicati su varie riviste. Essi fanno parte di un solo progetto: la ricostruzione della storia di Lacedonia dalle fonti archivistiche. Si spera anche di gettare un piccolissimo seme per ulteriori ricerche coinvolgendo sempre di più le nuove generazioni con il desiderio di far conoscere il nostro passato, comprendere il presente per ricostruire un futuro migliore. Si vuole, poi, rendere omaggio a tutti coloro che hanno dovuto allontanarsi dal proprio paese natio, ed in particolare agli emigranti meridionali di tutti i tempi, specialmente lacedoniesi, ritenuti spesso dissimili e, a volte, trattati diversamente. Il francese Marc Bloch, costretto ad abbandonare la sua città per sfuggire a rappresaglie politiche, in “Apologia della storia”, scrive: “Colui che differisce da noi – straniero, avversario politico – passa, quasi necessariamente, per un malvagio.

Anche per condurre le lotte che si presentano come inevitabili, occorrerebbe un po’ più di intelligenza delle anime; e tanto più per evitarle, quando si è ancora in tempo. La storia, pur che rinunci alle sue false arie di arcangelo, deve aiutarci a guarire di questo difetto. E’ una vasta esperienza delle varietà umane, un lungo incontro degli uomini. La vita, al pari della scienza, ha tutto da guadagnare da che questo incontro sia fraterno”. Questa pubblicazione vuole servire anche a stabilire momenti di “rendez-vous” con altre comunità. Per questo è ancora più meritoria l’iniziativa dell’Associazione culturale Lacedonia “A.LACE” con sede in Lugano (Svizzera) di pubblicare il presente volume. Un vivo ringraziamento va, perciò Al Presidente e a tutti i componenti l’ASSOCIAZIONE che sentono il bisogno, tra l’altro, di tenere sempre stretto il legame con la propria terra d’origine e mostrano sempre vivo il desiderio di conoscere le proprie radici e tramandarle ai propri figli.

Carmine Ziccardi

Capitolo I

PREMESSA: 

Quando il sindaco del Comune di Lacedonia, mi propose di collaborare alla ricerca e alla pubblicazione della storia del Comune, che doveva avvenire nell’estate del 1985 (i lavori si dovevano presentare entro il mese di dicembre) accettai l’incarico con entusiasmo e senza indugi. Forse perché avendo già da qualche anno avviate ricerche, senza pero pensare ad una, quanto meno immediata, pubblicazione, ero in possesso di molte notizie riguardanti Lacedonia. Quando però cercai di elaborare il tutto, mi accorsi che occorrevano ulteriori approfondimenti per saldare alcuni anelli, per chiarire certe situazioni. Ecco allora le affannose corse per archivi e biblioteche. Ovviamente non si trova quello che si cerca in un solo Istituto; di qui la necessita di avere molto più tempo a disposizione, anche perché trovata una notizia essa pone altri problemi, suscita nuovi dubbi che a loro volta esigono ulteriore tempo. Ci si rende conto tuttavia che non si può andare all’infinito con questo discorso anche perché il campo è così vasto e sarebbe solo presunzione pensare ad un’unica e definitiva soluzione. Si cerca allora di mettere insieme quello che si ha per continuare, approfondire, porre le basi per ricerche future con la speranza di rendere un servizio utile alla cultura e alla comunità lacedoniese.

A questo proposito corre l’obbligo di spendere qualche parola circa le difficoltà in cui si trova chi voglia cercare negli archivi e biblioteche dei nostri paesi, da dove la logica vuole che parta ogni tentativo di ricostruzione storica locale. Gli archivi ci sono e le biblioteche anche; ma e come se non esistessero quando non e possibile accedervi per la natura (privati, ecclesiastici) e per il disordine dei primi o per la genericità e per la mancanza, spesso, di mezzi di corredo che ne permettano l”uso delle seconde. Per quanto riguarda gli archivi sarebbe opportuno, viste le difficoltà non solo economiche in cui versano i possessori e la scarsa competenza, almeno per i documenti più antichi, degli addetti alla loro conservazione, creare i consorzi archivistici per aree storiche omogenee previsti dall’art. 30 del D.P.R. 50 settembre 1965 n. 1409*. Si affida così il riordino, l’inventariazione e la conservazione a persone in possesso del diploma di Archivistica, Paleografia e Diplomatica, evitando quegli inconvenienti che spesso si notano con l’impiego di personale non qualificato in tale delicata materia e contribuendo a risolvere due gravissimi problemi: la salvaguardia delle fonti primarie della storia e la riduzione della disoccupazione intellettuale. Va da se che gli archivi devono restare comunque presso la propria sede di origine, mentre del consorzio devono far parte, possibilmente, tutti i possessori di “carte” (pubblici, privati, ecclesiastici), ognuno concorrendo alle spese secondo le proprie possibilità. Per quanto riguarda le biblioteche non sarebbe opportuno creare uno schedario unico comunale? Mi spiego meglio.

Si potrebbero schedare tutti i libri che si trovano, per esempio, nella circoscrizione comunale lacedoniese: nella biblioteca comunale, nelle biblioteche delle Scuole (elementari, medie, Istituto magistrale, Liceo classico, Istituto tecnico), nelle biblioteche private ed ecclesiastiche che aderiscono, ovviamente, all’iniziativa, offrendo un unico strumento di consultazione e garantendo a tutti la possibilità di conoscere quello che esiste in loco e quello che e consultabile. Con questo sistema si eviterebbe anche la dispersione delle poche somme a disposizione in acquisti di più copie di una stessa pubblicazione a scapito di quelle più specialistiche e rare che potrebbero servire al cultore di storia locale. Il consorzio archivistico e un sistema bibliotecario urbano cosi concepito potrebbero funzionare anche da propulsori per una raccolta organica, in fotocopie, in diapositive, in microfilms, di materiale bibliografico e archivistico conservato altrove. Ecco allora che si rende più agevole il compito di chi si accinge ad una ricostruzione storica completa e organica del proprio paese. Occorre pero avere tutti, e gli amministratori per primi, la consapevolezza che solo se si conosce il passato si può costruire il futuro evitando quegli errori che ci hanno costretti spesso ad un ruolo di subalterni nelle società più avanzate.

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* L’articolo 166 del D.L. 29 ottobre 1999, n. 490 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell”art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352” abroga, tra le altre disposizioni, anche l”art. 30 del DPR 30 settembre 1965 n 1409.

Capitolo II

LA DIOCESI DI LACEDONIA NEL ‘600

“Le cattedrali, si sa ormai, ritraggono nella loro mole, nelle loro strutture architettoniche, negli stessi interventi molteplici, subiti a causa  di svolte culturali, o di calamita naturali, come i terremoti, le guerre e altro, la storia dei popoli che sono vissuti all’ombra dei loro possenti campanili. L’affermazione se é valida per tutti i popoli diventa più vera riferita al nostro Sud, dove la Religione e riuscita l’estremo sostegno per continuare a vivere e a sperare, malgrado le oppressioni e le ingiustizie, nonché gli egoismi sfrenati cioè hanno tenuto banco sulla scena della storia. Dinanzi a questo scenario non certo lieto il popolo lieto reagito rifugiandosi nella fede, di cui ha moltiplicato i segni che ha voluto splendi, grandiosi, molto spesso sontuosi, quasi per non perdere di vista e contemplare visivamente le istanze ai bellezza e di gloria che vedeva disattese alla vita quotidiana” (73).

Su questi segni di fede e sulla molteplicità di aspetti che emergono dalle relazioni “ad limina apostolorum” sullo stato delle Chiese della diocesi di Lacedonia dal 1651 al 1654 (74) presentate dal vescovo Bruni (75) ci si sofferma in quanto esse offrono un’abbondanza di notizie sui luoghi pii, sulla popolazione, sulle chiese, sui beni ecclesiastici, sul clero e sulla vita religiosa, sulle confraternite, sui benefici, sui costumi del popolo e sui monasteri e costituiscono una fonte dalla quale si traggono moltissimi dati importanti per il periodo cui si riferiscono. Dalla lettura delle carte affiorano anche elementi per la identificazione del tessuto sociale e dei rivolgimenti politici e delle conseguenze di tali cambiamenti. Sarebbe stato opportuno uno studio integrale e completo di tutte le relazioni. Purtroppo il materiale archivistico e lacunoso. Mentre, per esempio, può essere giustificata la mancanza di alcune relazioni, come quella del 1589,e inspiegabile il silenzio che avvolge gli anni dal 1786 al 1814 (76). Per la prima relazione il vescovo fa sapere che quando fu fatta la bolla “di visitare limina Apostolorum al 20 dicembre l585″ si trovava a Roma quale commissario del papa dove si fermò fino al mese di giugno 1586. Non gli fu consegnata nessuna nota scritta. Quando partì per Lacedonia “bacio li S.mi Piedi visito limina Apostolorum et fece reverenza al S.re cardinale d’Este all’hora primo diacono”. Dopo tre anni (giugno 1589) non andò a Roma perché debitamente autorizzato dal cardinale Carafa per ”i gravi caldi” (77). Non era certo sufficiente solamente visitare le tombe degli apostoli Pietro e Paolo presso le basiliche Vaticana e Ostiense, occorreva relazionare alla Sede Apostolica sullo stato della diocesi. L’obbligo era categorico. Per facilitare la visita e per dare la possibilità a tutti di adempiere alle prescrizioni, pena la sospensione immediata dall’amministrazione spirituale e temporale della diocesi, si stabili la periodicità delle visite a seconda della distanza da Roma: 3 anni per i vescovi italiani e delle isole limitrofe, 4 anni per i vescovi di molti paesi europei, 5 anni per i vescovi delle rimanenti isole europee e dell’Atlantico e delle coste africane e 10 anni per i prelati asiatici, americani e del resto del mondo. Si decide perciò per una trattazione per periodi (78) anche perché lo studio di una piccola diocesi come quella lacedoniese che conta duecentoventi fuochi, circa milleduecento abitanti, e due sole comunità, Lacedonia e Rocchetta S. Antonio, aiuta a capire, attraverso la sua complessa problematica, la realtà sociale di tutti i comuni circostanti.

73) A. FORTE, vescovo di Ariano a Lacedonia, introduzione a La Cattedrale di Lacedoma tra passato e presente, il cura di S. Bardaro, Lioni s.d. p. 5.
74) Archivio Segreto Vaticano (d’ora in poi ASV), Relationes ad limina, cart. 433/A.
75) Il vescovo Ferdinando Bruni, nato a Firenze, assume il possesso della diocesi il 6 ottobre 1625, all’età di circa 32 anni, dopo il lungo governo, dal 2-4 novembre 1608, di Giovanni Geronimo Campanile trasferito ad Isernia dove assume la diocesi il 27 gennaio 1625.

LA DIOCESI E IL CLERO

La diocesi di Lacedonia (79) e situata ai confini della provincia di Principato Ultra nel Regno di Napoli e confina con la Puglia e la provincia di Capitanata. Conta circa duecentoventi fuochi (80) ed e abitata da 1200 anime circa. Ha un capitolo di 12 canonici ogni canonico ha una entrata di 70 ducati l’anno. Sono ammesse cinque dignità: un arcidiacono che e la dignità principale dopo quella pontificia ed e a capo dei diaconi e spesso con funzioni di vicario con compiti di sorveglianza nell’ambito della diocesi, un arciprete che è a capo di un capitolo per la cura delle anime, un primicerio che è la prima dignità dopo l’arciprete col quale collabora nella cura delle anime e che sostituisce quando questi e impedito; è a capo dei suddiaconi e chierici ed è il primo dei cantori e dei lettori, un cantore e un tesoriere. Tutte le dignità sono prive di prebende “o parte particolare”: godono solo della “precedentia” e sono esenti “di Procura capitolare”. La diocesi conta 7 sacerdoti semplici, di cui uno non regolare, un subdiacono e 13 e chierici “costituiti in minoribus che prestano habito, et tonsura”. Nel 1634 conta lo stesso numero di sacerdoti semplici, ma tre diaconi, tre suddiaconi e nove chierici.

77) Ibidem, cart. 433/A.

78) Cfr. C. ZICCARDI, La diocesi di Lacedonia tra ottocento e novecento nelle relazioni del vescovo Zimarino, in “Rassegna storica irpina”, fasc. 3-4, Avellino. 1991, pp.265-275.

79) Con il riordino delle diocesi vacanti dopo il periodo napoleonico e il ritorno a Napoli di Ferdinando I Borbone, con il Concordato del 16 febbraio 1818 Lacedonia assorbe la diocesi di Trevico. Per altre notizie relative alla diocesi lacedoniese e alle chiese vedi: G. G. LIBERTAZZI, La diocesi di Lacedonia nella età moderna, Venosa 1986; F. BARRA, Chiesa e società in Irpinia dall’Unità al Fascismo, Roma 1978; S. BARDARO, La cattedrale di Lacedonia, cit; E. TIRONE  e F. PEPE, Santa Maria della Cancellata in Lacedonia, Benevento s.d.

80) Nella relazione del 1634 si chiarisce che il numero dei fuochi, così come risulta dal catasto, e di 327 ma in realtà non arrivano a 250. La diocesi conta 1200 anime di cui otto-novecento di comunione.

LA CHIESA CATTEDRALE

La chiesa cattedrale, sotto il titolo di Santa Maria dell’Assunta, e fuori dell’abitato e distante da questo “due archibusciate” (81). È a tre navate divise in parte da pilastri in parte da colonne. Ogni navata ha una porta (82) ed e rivolta a mezzogiorno. Entrando in chiesa, a destra, vi è un campanile di “comoda altezza (“un buon tiro di balestra”), quale dieci anni sono in circa alle undici di dicembre (83) vi casco sopra un folgore, et lo rovino, dove per la rovina del detto campanile si ruppero tre campane, due grosse, et una piccola, et una se ne ritrovò sana per esserne quattro campane in detto campanile”. Quando casco il campanile rovinò gravemente la chiesa. Essendo la spesa ingente per la riparazione e le entrate del vescovado povere non si e ancora provveduto alla riparazione. Il crollo rovinò anche le cappelle dei benefici di S. Benedetto e di Santa Croce: rifatte poi dai beneficiati. La chiesa e in mezzo ad un cimitero tutto fabbricato. A volte emergono fabbriche antichissime rovinate.

La cattedrale viene officiata con puntualità continua dai canonici. Nei periodi di cattivo tempo per neve o pioggia, essendo la chiesa umidissima e lontana dalla città, si officia nella chiesa di S. Antonio Abate situata nel centro della città pur celebrando messa ogni mattina nella cattedrale o per obblighi o per devozione. Il Santissimo Sacramento “ab immemorabili tempo” non si conserva nella Cattedrale: fu trasportato in città per ovviare ai pericoli che potevano succedere in una chiesa fuori città incustodita e per comodità di amministrarlo in caso di necessita. La Cattedrale e “polizzata, annettata et guardata” da un laico che, per  tale incarico, è detto fraticello e gode di alcune franchige e di una vigna “gratis quale è della Chiesa Cattedrale, questo esso fraticello ha cura di accomodarla, et pigliasse il vino”.

81) La distanza della cattedrale dal centro abitato e quantificato con “circa un archibusciato”. La cattedrale sarà intitolata a S. Maria della Cancellata nel 1694.

Nel 1711. costruita la nuova cattedrale il vecchio tempio viene quasi abbandonato.

82) Nella relazione del 1634 si legge che “ogni nava have tre porte”; in quella precedente si annota che “ogni nave ha la sua porta”.

83) Nella relazione del 1634 e detto: “nell’anno 1618 in circa alli sei di dicembre casco una saietta sopra il campanile e rovino detto campanile… qual campanile si e ricoperto, et fatto a tempo del detto presente vescovo il primo anno che venne che fu nel 1625”. Tirone e Pepe affermano che il fulmine colpisce il campanile l’11 dicembre 1619 e che il vescovo Campanile lo riparo nel 1622 a proprie spese (S. Maria della Cancellata, cit.)

─────────── CAP. III

LA PLATEA DEL FEUDO DI LACEDONIA*

*Da; VICUM, Periodico semestrale, Organo dell’Associazione

“P.S. Mancini”, Anno X, n. 1-2 marzo-giugno 1992

INTRODUZIONE

Lacedonia, centro agricolo dell’Alta Irpinia, e situato sulla dorsale che fa da spartiacque tra i fiumi Calaggio e Ofanto sul versante adriatico dell’ Appennino sannita. A 754 m. sul livello del mare, ha una superficie territoriale di kmq 81,57. Confina con Aquilonia (AV), Bisaccia (AV), Melfi (PZ), Monteverde (AV), Rocchetta S. Antonio (FG), S. Agata di Puglia (FG) e Scampitella (AV). Negli ultimi anni la popolazione di Lacedonia é andata riducendosi: da 6532 abitanti del 1951 è scesa a 5592 del 1961 e ancora a 3914 del 1971 fino a contare, al censimento del 25 ottobre 1981, 3871 anime. La scarsità delle fonti reperite non ci consente di conoscere la popolazione alla meta del ‘700 né permette una ricerca completa sulla tematica proposta. Pur tuttavia si tenta di ricostruire una tessera del vasto mosaico con la speranza di poter accedere, in futuro, ad altre fonti, sparse un po’ ovunque e cimentarsi in un’indagine più approfondita.

Sembra comunque interessante proporre la descrizione del feudo lacedoniese nella seconda meta del XVIII secolo per dare almeno la possibilità ai cultori di storia locale di attingere notizie da un documento fino ad ora sconosciuto. Ciò pone in evidenza, ancora una volta, la difficoltà in cui si trova chi vuole tentare una ricostruzione storica: la mancanza di accesso agli archivi o il disordine in cui versano quest’ultimi. Non è superfluo ricordare che l’archivio è la fonte primaria della ricerca, è il punto di partenza per ulteriori approfondimenti, è una componente essenziale ed indispensabile per il ricercatore. Purtroppo la situazione archivistica va sempre più peggiorando, specialmente dopo le vicissitudini del terremoto e delle sue conseguenze, fra cui quelle del coinvolgimento degli archivi nei crolli e nei traslochi dei palazzi comunali. Poco fanno i detentori o possessori, a qualsiasi titolo, delle cosiddette “carte vecchie”. Eppure è da queste che si conosce il passato da cui si costruisce il futuro.

LE RENDITE FEUDALI

Prima di rappresentare il feudo è opportuno descrivere la struttura dell’ ex istituto feudale con tutti i pesi e le rendite gravanti sullo stesso. Quasi tutti i paesi irpini, nel XVIII secolo, sono feudali e perciò gravati da pesi fiscali. La superficie coltivabile è ridottissima per la natura del terreno, collinare e difficile da coltivare e per la presenza di boschi. Solo con l’aumento demografico si disboscano i terreni per un fabbisogno maggiore della popolazione e perché dai terreni coltivabili gli introiti dei feudatari è maggiore. I terreni si sottraggono agli usi collettivi e si aumenta la quantità di prodotti su cui terraggiare ad esclusivo beneficio degli affittuari. Si diminuisce la superficie destinata a pascolo e si fa lievitare notevolmente la rendita, in denaro o in natura, sul rimanente. I cespiti feudali da corrispondere al feudatario derivano dall’esercizio della giustizia (diritti giurisdizionali), dall’esistenza degli Uffici, dal diritto di riscuotere dogane e pedaggi, consistenti nell’esigere una somma da coloro che passano con animali o altro, dai diritti derivanti da alcuni terreni (censi), dal possesso di fabbricati, mulini e forni. A Calitri, ad esempio, “era proibito ai cittadini et habitanti di tenere a fare forni nelle proprie case…; che qualunque cittadino et habitante, che vada a cuocere nelli forni baronali, deve portare le legne bastanti a cuocere il pane che porta; e poi per detto pagamento da due rotola di pane per ogni tomolo di farina in pasta ” e ” nelle quali have il jus prohibendi a cittadini et habitanti che non possono macinare altrove, se non che solamente qualora, per lo spazio di 24 ore, il fiume Ofanto non porgesse e desse acqua bastante a far macinare il mulino. Dopo il qual tempo di 24 ore – continuava l’ordinanza feudale, – se il suddetto molino non possa macinare per mancanza di acqua, possono andar a macinare ad altri molini”, o se la piena delle acque impedisse il transito del fiume mettendo in pericolo la vita dei cittadini (90).

I privati cittadini possiedono molto poco. L’agricoltura e basata su una coltivazione triennale e con mezzi arcaici. Al contadino, tolti i vari pesi fondiari, resta normalmente ben poco. Quando poi si verificano le cosiddette cattive annate la condizione della maggior parte della popolazione diventa miserevole.

IL FEUDO DI LACEDONIA

Il Governatore di Lacedonia, su delega del Magistrato della Regia Dogana di Foggia (91) del 31 maggio 1785, incarica alcuni compassatori (92) di misurare e redigere le piante relative ai territori posseduti dal principe Andrea Doria IV (95) a Lacedonia.

Le misure vengono effettuate negli anni 1785-1786 dai regi agrimensori i quali, a lavoro ultimato, fissano i confini delle terre feudali da quelle libere con termini di pietra, descrivono e dividono tutto il territorio e lo rappresentano in un registro detto “La Platea del Feudo di Lacedonia” (94) (95). Il feudo lacedoniese, nei confini della Puglia e della Daunia, situato nella Provincia di Principato Ultra, ha un comprensorio di 21.149 tomoli e 16 misure (96). Esso è tutto feudale e rende perciò al possessore il terraggio (97) e la fida (98). Alcuni territori o sono di libera spettanza dei possessori, e quindi non soggetti a pesi fondiari, oppure sono gravati dal terraggio in favore della Mensa Vescovile, della Chiesa Cattedrale, o anche delle Cappelle di S. Benedetto e di S. Lucia. Il principe esercita su questi lo “ius dell’erba agrestre”. Due territori, di pertinenza della Mensa Vescovile e posseduti dal vescovo come feudo rustico, sono esenti dall’aggravio feudale e al possessore non rendono il terraggio, la fida e l’uso dell’erbaggio; Doria esercita su di essi però la sola giurisdizione territoriale. “I più speciosi corpi componenti i divisati territori esenti” sono stati compassati dagli agrimensori delegati Michele Sarra e Michele Cardellicchio in seguito alla commessa avuta dalla Corte di Lacedonia in data 15 giugno 1785. Il feudo di Lacedonia confina: a est con il fiume Ofanto, con parte del Demanio di Rocchetta, con la Difesa di Ricciardi e con il Demanio di Monteverde; a sud con il Demanio e la Difesa di Carbonara e una piccola parte del Demanio di Bisaccia; a ovest con il Demanio di Bisaccia e con parte del fiume Calaggio; a nord con il Demanio di S.Agata e con il Demanio di Rocchetta.

Il territorio, formato da valli e colline, e quasi tutto cretaceo. In esso scorrono il fiume Ofanto, che costeggia la Difesa dei Serroni dalla parte di Levante, il fiume Calaggio e il torrente detto “Fiumara di Lacedonia”, il quale da le acque al mulino feudale per macinare il grano nella stagione invernale.  Tutto il tenimento di Lacedonia e ripartito in sette “diverse Rubriche” di territori, alcuni sono del Principe in qualità di “difese”: Origlio, Serrone, Montevaccaro e Chiancarelle che ascendono globalmente a 5.866 tomoli e 9 misure; altri, S. Biase e S. Cesareo, entrambi di 53 tomoli e 15 misure, sono della Mensa Vescovile e posseduti dal Vescovo come feudo rustico sui quali il Principe esercita solo la giurisdizione territoriale; altri ancora rendono a quattro Luoghi Pii lacedoniesi: Mensa Vescovile, Chiesa Cattedrale, Cappelle di S. Lucia e di S. Benedetto. 246 tomoli e 18 misure, invece, sono liberi ed esenti da ogni peso di corresponsione di terraggio e, infine, alcuni “membri” di terreni dispersi nel tenimento feudale, con una superficie di 2.972 tomoli, e per tutte le sue Corree (99), terreni cioè destinati per le comodità delle difese feudali quale il Terzetto, sono esclusivamente del Principe sui quali egli rappresenta oltre la feudalità del fondo anche la proprietà.

Alcune terre sono occupate da vigne e canneti e, in forza delle capitolazioni del 1584 tra l’Università del feudo di Lacedonia ed il principe e la principessa del tempo, Giovanni Andrea e Zenobia Doria, sono destinate ad uso dei cittadini senza che questi debbano corrispondere il diritto del fondo feudale che ammonta a cinque grana per le vigne e due grana e mezzo per i canneti. Per il terraggio si paga il diritto della mezza semenza, ossia mezzo tomolo per ogni tomolo su qualunque genere, ad eccezione del “grano d’India il quale siccome si semina in quella stessa magese, che dovrebbe stare a riposo per la semina in grano dell’anno appresso, vi e costume di non gravarsi di terraggio”. I compassatori hanno preso conoscenza della varia natura dei possedimenti dei territori e hanno rilevato che alcuni di essi si sono resi tali per smembramento fatto o dai Sovrani o dai precedenti Signori della Città e, non potendoli comprendere come territori che non rendono frutti al possessore ma ai Luoghi Pii, hanno riconosciuto che i territori assoluti del Principe, cioè quelli sui quali esercita il diritto di proprietà, oltre la feudalità, sono tutti territori acquistati o permutati in epoche diverse; hanno quindi stabilito, dopo aver consultato i rogiti relativi, che tutti i territori nel comprensorio delle “corree” del Principe sono stati ottenuti per permute e sono liberi dalla corresponsione feudale del terraggio.

Due territori sono posseduti, per antica legge del feudo, dal vescovo con il titolo di feudo rustico. Le Difese, i territori adiacenti (le Corree) e il Terzetto vengono delimitati, uno per uno, con termini lapidei. La difesa del Serrone viene circoscritta con sei termini (100) e la sua correa, detta del Serrone e composta da vari territori di proprietà del Principe, da 18 (101). La difesa di Montevaccaro e delimitata da cinque titoli (102) e la sua correa da 15 (105). La difesa di Chiancarelle e definita da 14 titoli di “vario aspetto” il primo dei quali e piantato alla punta del fiume Calaggio verso ponente(104) e la sua Correa con sei termini (105). La difesa di Origlio e limitata da 29 termini (106) e le sue due  corree, una verso Borea denominata Salaco (107) con sette e l’altra verso levante denominata Pauruso da 26 termini (108). Il Terzetto e stato definito da 9 termini (109).

La misurazione avviene con passi nella misura napoletana e Cioè: un passo e composto da sette palmi e ogni palmo da 12 once (110). Per osservare l’esattezza della misura e precisato che occorrono, per un tomolo di terreno, 24 terreni composti ognuno di sette passi e sei once. Il terreno demaniale e gli altri territori non sono stati delimitati con termini per non creare confusione. Si descrivono quindi tutti i terreni indicando per ognuno la quantità e il possessore distinguendo quelli che sono liberi da ogni peso fondiario da quelli che sono soggetti ad imposta fondiaria in beneficio della Mensa Vescovile, della Chiesa Cattedrale o della Cappella di S. Lucia.

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90) ACOCELLA V., Storia di Calitri, Grafiche F.lli Pannisco, Calitri, 1984, p. 103-104.

91) La Regia Dogana di Foggia e la magistratura amministrativa e giurisdizionale preposta alla tutela e all’amministrazione del demanio fiscale e regola la transumanza del Regno di Napoli. La giurisdizione si estende anche sulle terre dei privati quando l’uso del pascolo è stato acquistato “in perpetuum”. La Regia Dogana delle Puglie fu istituita con diploma del 1447 di Alfonso I d’Aragona.

92) I compassatori sono agrimensori diplomati presso la Regia Dogana di Foggia i quali vengono incaricati di misurare i terreni.

93) Andrea Doria IV, marito di Leopolda di Savoia Carignano, Principe del Sacro Romano Impero e feudatario di Torriglia, di Melfi, di Valmontone, è anche feudatario di Lacedonia dal 1765 al 1806.

Nel 1807 il feudo passa a Giovanni Andrea V che lo conserva fino all’eversione della feudalità.

94) Per l’assenza del Principe il documento e curato dal vice reggente Pio Ciabelletto.

95) Archivio di Stato di Potenza, Archivio Doria Pamphili.

96) Il tomolo e un’unità di misura di superficie agricola meridionale (vedi nota n. 110).

97) Il terraggio e la tassa consistente nella decima parte del raccolto,

98) La fida è il prezzo dell’erbaggio per il pascolo degli animali che si versa alla fine dell’anno doganale e cioè alla fine del mese di maggio.

99) Le Corree sono i territori adiacenti alle Difese e sono destinate alla comodità delle stesse. La “difesa” e un territorio destinato al pascolo.

100) “a fronte di Ponente caminando verso Borea il primo di essi E: situato a costo il vallone, che passa tra detta difesa e quella di Ricciardi e seguendo dopo passi 124, signati in pianta respettivamente si trova il secondo, e dopo passi 140 il terzo, dopo passi 165 il quarto e dopo passi 112 il quinto, e dopo passi 390 il sesto. ed ultimo.

Gli altri lati di essa difesa, non vengono Circoscritti con lapidei segni per esservi il confine naturale dei fiume Ofanto, e valloni…“.

101) “al fronte di Ponente, caminando verso Borea, il primo de quali e situato anche a costo il vallone sudetto, e da esso dopo passi 113 trovasi il secondo. e dopo passi 69 il terzo, e dopo passi 99 il quarto, e dopo passi 166 il quinto, e dopo passi 78 il sesto, e dopo passi 114 il settimo. e dopo passi 77 l’ ottavo, e dopo passi 70 il nono, e dopo passi 175 il decimo. e dopo passi 183 l’undecimo, e dopo passi 40 il duodecimo, e dopo passi 62 il decimo terzo, e dopo passi 112 il decimo quarto, e dopo passi 230 il decimo quinto, e dopo passi 115 il decimo sesto, e dopo passi 146 il decimo settimo, e dopo passi 75 il decimo ottavo, ed ultimo. Gli altri due lati, si sono lasciati senza titoli, essendosi rispettivamente i valloni che vi scorrono”.

102) “a prospetto di mezzogiorno esaminando verso ponente. Il primo di essi e situato alla punta del vallone verso Levante, e seguendo dopo passi 69 trovasi il secondo, e dopo passi 58 il terzo e dopo passi 92 il quarto, e dopo passi 114 il quinto, ed ultimo. Tutto il restante della difesa medesima, viene circoscritto dal fiume Calaggio e valloni”.

103) “La medesima viene circoscritta al prospetto di Borea dai sopra descritti titoli cinque, e da altri sei viene circoscritta e confinata a fronte di Levante camminando verso mezzogiorno il primo de quali è situato a fronte del primo titolo della difesa medesima in distanza da esso passi 302, e seguendo dopo passi 45 trovasi il secondo, e dopo passi 49 il terzo, e dopo passi 136 il quarto, e dopo passi 139 il  quinto, ed indi rivoltando verso ponente e dopo passi 69 trovasi il sesto, ed ultimo. Il restante di essa Correa viene circoscritta da vallone, e da piccola parte di Levante dove non si è potuto piantar termine”.

104) “dal quale camminando verso mezzogiorno dopo passi 183 si trova il secondo, dopo passi 445 il terzo, e dopo passi 166 il quarto, e dopo passi 228 il quinto, e rivoltando il camino verso Levante dopo passi 76 il sesto, e dopo passi 630 il settimo, e dopo passi 284 l’ottavo, e dopo passi 102 il nono, dal quale continuando a caminare verso Borea dopo passi 125 il decimo, e dopo passi 81 l’undecimo, e dopo passi 117 il duodecimo, e dopo passi 324 il decimo terzo. e finalmente dopo passi 133 il decimoquarto, ed ultimo, dal quale si va al fiume Calaggio ove vi e piantata una murgia di pietra naturale; ed il rimanente di essa difesa vien confinata dal fiume Calaggio medesimo”.

105) “da sei lapidei titoli della difesa medesima al prospetto di Ponente, e da altri otto al prospetto di Mezzogiorno, e Levante; il primo de quali in distanza di passi 78 dal tratturo della Lamia, e da esso seguendo il camino verso Levante dopo passi 97 si trova il titolo secondo, e dopo passi 148 il terzo, dopo passi 26 il quarto, e rivoltando al prospetto di Levante continuando il camino verso Borea dopo passi 140 trovasi il quinto, e dopo passi 250 il sesto, e dopo passi 85 il settimo, e dopo passi 371 l’ottavo, ed ultimo. Il di più di essa Correa viene confinato dal fiume Calaggio”.

106) “il primo dei quali principiando dal titolo situato a costo il triangolo, o sia titolo rotto, che sono alla punta di essa difesa a fronte di Ponente tra il demanio di Bisaccia, e Carbonara, e da esso proseguendo il camino tra il demanio di Bisaccia e la difesa medesima anche a fronte di Ponente camminando verso Borea a linea retta tratto tratto, trovasi otto titoli dal primo de quali, come sopra sino all’ottavo, vi sono passi 750 non descrivendosi la distanza di un all’altro, per essere a retta linea situati, per cui è sufficiente indicare il primo, e l’ultimo che è l’ottavo, dal quale poi seguendo a caminare si rivolta verso Levante, e dopo passi 526 trovasi il nono nel mezzo d’un vallongello, e dopo passi 210 il decimo, e dopo passi 200 l’undecimo, e dopo passi 50 il duodecimo, e dopo passi 54 il decimo terzo, e dopo passi 196 il decimo quarto, e dopo passi 172 il decimo quinto, e dopo passi 120 il decimo sesto, e dopo passi 110 il decimo settimo, e dopo passi 460 il decimo ottavo, e dopo passi 232 il decimo nono, e dopo passi 160 il vigesimo, e dopo passi 105 il vigesimo primo, e dopo passi 344 il vigesimo secondo, il qual è situato a fronte della strada medesima, che va a Carbonara dal quale proseguendo il camino per la strada medesima al prospetto di Levante camminando verso Mezzogiorno dopo passi 242 trovasi il vigesimo terzo, e dopo passi 230 il vigesimo quarto, e dopo passi 160 il vigesimo quinto, e dopo passi 360 il vigesimo sesto da dove tralasciando la strada si rivolta il camino in prospetto di Mezzogiorno andando verso Ponente tra essa difesa ed il demanio di Carbonara dopo passi 800 trovasi il vigesimo settimo, e dopo passi 691 trovasi il vigesimo ottavo, e dopo passi 270 si giunge al vigesimo nono, o sia il titolo rotto che è il suddetto triangolo come sopra citato”.

107) “al prospetto di Mezzogiorno, quali sono tra i suddetti ventinove titoli della difesa medesima e da altri titoli numero quindeci dagl’altri lati di Ponente, Borea e Levante il primo de quali è situato alla punta del vallone, che attacca alla Correa in distanza di passi 68 da uno dei titoli della difesa istessa dal quale proseguendo il camino verso Borea in prospetto di Ponente dopo passi 181 trovasi il secondo, dopo passi 68 il terzo, e dopo passi 142 il quarto, e rivoltando il camino verso Levante al prospetto di Borea passi 141 trovasi il quinto, e dopo passi 86 il sesto, e dopo passi 110 l’undicesimo, e dopo passi 162 il duodecimo, dal quale rivoltando il camino verso mezzo giorno al prospetto di Levante dopo passi 75 trovasi il decimo terzo, e dopo passi 181 il del Cimo quarto, e rivoltando lo stesso camino di Levante al prospetto di Borea dopo passi 263 trovasi il decimo quinto, ed ultimo, che e distanza di passi 180 da un altro titolo della difesa medesima”.

108) “La Correa del Pauruso e circoscritta nel prospetto di Ponente da titoli numero sei della difesa medesima, e da altri venti in vario prospetto. Il primo de quali in distanza di passi 200 dal titolo della Difesa che e alla punta della via che da’ Carbonara va’ a Cedogna, dal quale camminando al prospetto di Mezzogiorno verso Levante per il Confine del Demanio di Carbonara, e la Correa medesima dopo passi 180 si trova il secondo, e dopo passi 150 il terzo, e dopo passi 290 il quarto, che e una pietra naturale, e da ivi rivoltando il camino verso Borea al prospetto di Levante dopo passi 35 trovasi il quinto, e dopo passi 164 il sesto, e rivoltando il camino verso ponente al prospetto di Levante dopo passi 218 trovasi il settimo e Camminando verso Borea al prospetto di Levante dopo passi 178 trovasi l’ottavo, e dopo passi 210 il nono, e dopo passi 172 l’unde- cimo, e dopo passi 210 il duo decimo, e dopo passi 250 il decimo terzo, e dopo passi 170 il decimo quarto, e rivoltando il camino verso Ponente al prospetto di Borea dopo passi 313 trovasi il decimo quinto, e dopo passi 230 il decimo sesto, e dopo passi 97 il decimo settimo, e dopo passi 110 il decimo ottavo, e dopo passi 120 il decimo nono, e dopo passi 265 il vigesimo ed ultimo, dal quale dopo passi 161 si giunge all’altro titolo della difesa medesima che fa confine con la Correa”.

109) “ll territorio denominato Terzetto anche proprietario del Signor Principe come al fog. 2, e circoscritto da titoli nove, il primo de quali è situato in una piccola Stradella da sotto il limite del Terzetto suddetto in distanza di passi 110 dalla pietra fissa nominata nella detta Correa dal quale camminando per il demanio di Carbonara al prospetto di Mezzogiorno verso Levante dopo passi 236 trovasi il secondo, e dopo passi 689 il terzo sulla punta d’un montetto all’argine della fiumara, dal quale rivoltando il camino verso Borea al prospetto di Levante vallone vallone dopo passi 462 trovasi il quarto, e proseguendo via via dopo passi 159 trovasi il quinto, ed indi rivoltando il camino al prospetto di Borea verso Ponente tra il territorio dell’Università di Cedogna detto li Curci, e lo stesso Terzetto dopo passi 228 trovasi il sesto, e dopo passi 105 i settimo, e dopo passi 269 l’ottavo, e dopo passi 314 il nono, ed ultimo, dal quale caminando altri passi 213 si giunge ad un titolo della Correa suddetta all’istesso fronte”.

110) Il tomolo è uguale a 24 misure, a 1.200 passi quadrati, a 58.800 palmi quadrate, a 41,15 are attuali. La misura corrisponde a 50 passi quadrati, a 2.450 palmi quadrati, a 1,71 are. Un passo quadrato è pari a 49 palmi quadrati, a 3,43 metri quadrati. Un passo lineare è uguale a metri 1.85.

 

 

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