Senza categoria

LACEDONIA: guerra, follia e morte

lacedonia panorama visto dalla fornace copia.1jpg

Comunicato stampa… del Corriere dell’Irpinia, gentilmente concesso per la pubblicazione.

E’ notte inoltrata a Lacedonia, il 7 luglio del 1939, quando Francesco Caggiano, 25 anni, muratore, in compagnia del fratello Donato, di Nicola De Vincentis, Nicola Caggiano e Giuseppe Scola si incammina verso contrada Serra. Scelgono il percorso più impervio e nascosto, il sentiero è stretto, devono attraversarlo uno dietro l’altro, davanti c’è Francesco Caggiano, per ultimo il fratello Donato. Improvvisamente l’esplosione di cinque colpi di rivoltella, è Francesco Caggiano ad estrarre dalla tasca la pistola automatica e a fare fuoco, dapprima al’indirizzo di Nicola Caggiano, poi contro il De Vincentis. Lo Scola cerca di scappare ma è raggiunto anche lui da un proiettile. Il giorno dopo il De Vincentis morirà in ospedale. Lo Scola e Caggiano se la caveranno con delle ferite guaribili in poche settimane. Il mattino successivo gli inquirenti troveranno Francesco Caggiano tranquillamente a letto nella propria abitazione, come se nulla fosse accaduto. Sotto il cuscino l’arma del delitto, la rivoltella con la quale sono stati esplosi i cinque colpi, una pistola automatica, calibro 7,65.

L’OSSESSIONE DEL COMPLOTTO

Francesco Caggiano era ritornato dalla Spagna il 6 giugno 1939, dove si era recato come volontario nel febbraio del 1937. Qui aveva combattuto nella guerra civile con l’esercito fascista, a sostegno di Franco. Un equilibrio mentale, quello di Caggiano, che si era rivelato ben presto fragile.
A scatenare una vera e propria mania di persecuzione un furto commesso ai danni del suo reparto, sezione di sanità, del quale non era stato mai trovato il colpevole. Caggiano, era, però, convinto di conoscere il nome dei misteriosi ladri, di averli sorpresi in possesso del denaro e di essere dunque diventato un testimone scomodo per i colpevoli: «L’autore del furto – racconterà Caggiano – era un mio commilitone, Vincenzo Pavolano, della provincia di Napoli. Questi, sapendo che lo avevo sorpreso a contare il denaro rubato e dunque avrei potuto accusarlo, concepì il disegno di uccidermi o farmi uccidere dai suoi compari. Ebbi conferma di questo disegno mentre viaggiavamo sul piroscafo Calabria che ci rimpatriava. Sentii il Pavolano che diceva ad un amico, Giuseppe Rapuano, le seguenti parole: “Questo qui bisogna ammazzarlo, altrimenti dice tutto”. Inizialmente, avevo informato dei miei sospetti il tenente Massaro ma costui non mi diede retta, così successivamente mi rivolsi ad un mio compaesano che viaggiava con noi, il tenente Antonio Chicone. Gli parlai del complotto di Pavolano ai miei danni ma neppure il Chicone mi prese sul serio. Così cominciai a sospettare anche di loro e a pensare che fossero d’accordo con i colpevoli del furto. Allo sbarco a Napoli mi accorsi, poi, di persone sospette che mi seguivano. Pensai di informare la Pubblica Sicurezza ma non riuscii a trovare l’ufficio e partii alla volta di Montesarchio, dove dovevo entrare in possesso del premio di smobilitazione. Uno sconosciuto, intanto, si era avvicinato alla stazione di Napoli e si era offerto di accompagnarmi. Intanto, i miei sospetti si facevano sempre più forti, ne parlai anche con un agente di Pubblica Sicurezza in borghese. Feci ritorno al mio paese, Lacedonia e qui incontrai il tenente Chicone, il mio compaesano. Mi accorsi che dal giorno in cui gli avevo riferito dei miei sospetti mi guardava con diffidenza. Mi convinsi sempre di più che anche il Chicone stesse complottando contro di me e i sospetti crebbero quando mi accorsi che Nicola Caggiano, Nicola De Vincentis e Giuseppe Scola mi pedinavano. Così lo comunicai prontamente al comandante della stazione. La sera del 7 luglio mi ero recato con mio fratello Donato alla cantina Pagliuca a bere un bicchiere di vino. Fu qui che incontrai Nicola De Vincentis e Angelo Giannitti e ci intrattenemmo con loro. Successivamente, il Giannitti rimase in cantina, io, Donato e il De Vincentis uscimmo, decisi a tornare a casa. Prima di salutarci ci fermammo un po’ a discutere. Erano già le 11 passate quando sopraggiunsero Nicola Caggiano e Giuseppe Scola, si avvicinarono a noi e fu allora che il De Vincentis propose di andare dalla prostituta Maria D’Angelo. Gli altri furono d’accordo e ci incamminammo per via Galileo, una stradina ai piedi della rupe. Mio fratello di 17 anni, che soffre di disturbi psichici, non venne con noi.

Mentre camminavo alla testa del gruppo, seguito da Nicola Caggiano, De Vincentis e Scola, tutti e tre si fermarono e credendo di non essere sentito, il Caggiano mormorò agli altri “Non vi preoccupate che a questo lo frego io”. Vidi Nicola Caggiano e De Vincentis muoversi a passo accelerato verso di me mentre lo Scola rimase fermo a 60 metri dal punto in cui mi trovavo. Mi convinsi che volessero uccidermi, feci qualche passo indietro, presi la rivoltella che avevo in tasca e sparai quattro colpi al’indirizzo del Caggiano e del Vincentis con l’intenzione di ferirli per impedire loro di uccidermi. Mi accorsi, poi, che lo Scola assisteva impassibile alla scena e temendo che potesse farmi del male sparai anche a lui. Mi allontanai del luogo del delitto e non dissi niente a nessuno. Non avevo intenzioni omicide, se le avessi avute avrei sparato anche gli altri colpi che avevo in canna». Alla richiesta del perché avesse con sé un’arma risponderà che quella pistola doveva servirgli a difendersi nel caso qualcuno avesse attentato alla sua vita: «La portavo sempre con me da quando avevo capito che qualcuno voleva uccidermi». Smentirà, inoltre, con decisione la presenza di Donato al momento dell’esplosione dei colpi, come riferiranno, invece, gli altri testimoni. Racconterà di aver accettato la proposta del De Vincentis soltanto «per non apparire vigliacco ed evitare che gli altri potessero pensare che ero una spia». Alle obiezioni degli inquirenti che gli faranno notare come non dovesse avere alcun timore di apparire vigliacco, avendo già dimostrato il proprio coraggio in guerra e come fosse stata una decisione priva di senso accettare quella proposta, se effettivamente temeva di essere ucciso, replicherà con decisione: «Insistettero molto e, proprio dati i miei precedenti in guerra, non volevo dimostrare di avere paura. Poi, era da molto che non avevo rapporti con una donna e quello era l’unico luogo in cui avrei potuto soddisfare questo mio bisogno». Fino alla fine continuerà a sostenere di aver agito per legittima difesa «Si facevano degli strani segni, come un linguaggio in codice, pensavo che da un momento al’altro mi avrebbero sparato.

Credevo che insieme al Chicone appartenessero ad un’associazione criminale. Non mi pento di quel che ho fatto». Una versione molto diversa da quella sostenuta dallo Scola e da Nicola Caggiano che racconteranno come la proposta di recarsi da Maria D’Angelo fosse partita dallo stesso Francesco Caggiano: «Io e Nicola Caggiano siamo padri di famiglia – spiegherà lo Scola, 41 anni, di professione calzolaio – e ci opponemmo ma il De Vincentis, che quella sera appariva molto diverso dal solito, accolse con entusiasmo la proposta, pur ammettendo che aveva in tasca solo poche lire. Francesco Caggiano si offrì allora di pagare anche per lui, per me e per Nicola. Così, incuriositi di quello che avrebbe combinato il De Vincentis, andammo con loro. Prendemmo una strada solitaria e ripida, malgrado avessi a lungo insistito perché seguissimo un altro percorso. Ma il Caggiano spiegò che se avessimo preso altre strade avremmo rischiato di essere fermati dai carabinieri. Il sentiero era stretto e dovevamo camminare in fila indiana, Francesco Caggiano per primo, poi Nicola Caggiano, De Vincentis, io e Donato. A un certo punto ebbi bisogno di fermarmi e pregai così Donato di precedermi, quindi li raggiunsi nuovamente. Non eravamo neppure a metà strada quando Francesco si allontanò dalla strada, si rivolse verso di noi e cominciò a sparare colpi di rivoltella. Colpì per primo De Vincentis e Caggiano, io sorpreso, rimasi immobile ma Donato, rivolto verso il fratello gridò “Spara, spara”. Partì un colpo anche contro di me e rimasi ferito alla gamba. Non potevamo chiedere aiuto, nessuno ci avrebbe sentiti. Lasciando a terra gli altri feriti, mi trascinai verso il paese. Qui andai alla ricerca di un medico che mi prestò le prime cure. Posso garantire che tra me e Francesco Caggiano non c’erano mai stati litigi ma mi risulta che i rapporti con Nicola Caggiano e Nicola De Vincentis fossero piuttosto tesi». Scola negherà l’esistenza di qualsiasi piano per uccidere Francesco Caggiano «Non abbiamo mai pedinato il Caggiano, non capisco come sia nata questa accusa. Né feci passare Donato davanti perchè temevo che i due fratelli potessero farmi fuori».
Così come smentirà quella misteriosa frase riportata da Francesco Caggiano “Questo lo frego io”. “Non riesco a capire – chiarirà – quello che è accaduto, non so spiegare neppure perché Donato esortasse il fratello a sparare. Certamente Donato è un giovane con dei problemi psichici, probabilmente a causa di una malattia contratta durante il servizio militare». Un particolare, quello della presenza di Donato sulla scena del delitto, sempre negato dall’imputato.
«So che aveva acquistato da qualche tempo una rivoltella – racconterà Nicola Caggiano, 34 anni, contadino – e aveva raccontato agli amici di volermi uccidere con quell’arma. Con lui non c’erano tensioni ma col fratello Donato esisteva una forte inimicizia. Credo che Donato avesse più volte aizzato il fratello contro di me. Qualche tempo fa lo avevo persino denunciato poiché ogni volta che mi incontrava mi insultava. Mentre percorrevamo il sentiero, diretti alla casa di Maria D’Angelo, su proposta dello stesso Caggiano, un colpo d’arma da fuoco mi colpì alla spalla. Caddi ma, nel tentativo di rialzarmi, fui di nuovo ferito. Soltanto allora mi accorsi che a sparare era stato Francesco Caggiano, si era spostato a sinistra e teneva la rivoltella puntata contro tutti. Il De Vincentis era a terra. Lo Scola cercò di darsi alla fuga ma fu inseguito e colpito. Fino ad allora Donato era con noi ma quando, dopo lo sparo, mi guardai intorno non lo vidi più”.

Anche lui, come lo Scola, smentirà di aver mai pedinato il Caggiano.
Ad essere interrogato sarà anche Chicone, tenente nelle operazioni belliche condotte in Spagna, da civile insegnante elementare: «Il Caggiano faceva parte del mio stesso battaglione, almeno fino alla presa di Bilbao ma non lo ebbi mai alle mie dipendenze, quindi non posso dire di conoscerne le qualità morali ed intellettuali. Per tutta le durata delle operazioni di guerra non mi risulta, però, che abbia commesso alcun atto o comunque dato segni di alienazione mentale. Tuttavia, la sera del 5 giugno mentre ritornavamo in Italia e la nave stava per attraccare al porto di Napoli si presentò da me e mi disse che aveva il sospetto che alcuni legionari lo pedinassero con l’intenzione di ucciderlo. Una volta a Lacedonia, non ho avuto più contatti con lui». Saranno altri testimoni a rivelare ulteriori particolari relativi all’omicidio. Incoronata Lentini, proprietaria della cantina nella quale si erano trattenuti a lungo il De Vincentis e i Caggiano e lo stesso Angelo Giannitti, entrato nel locale in compagnia del De Vincentis, riferiranno di aver sentito Francesco Caggiano lamentarsi del gestore del caffè del Dopolavoro, Bonavita, poiché qualche anno prima aveva colpito il fratello. Caggiano aveva spiegato di frequentare il locale soltanto perchè cercava un pretesto per litigare con lui. Una prova, dunque, dell’indole aggressiva del Caggiano.
Sarà, poi, la moglie del De Vincentis, Rosina Capano, a raccontare che proprio la notte del delitto, il marito, prima di uscire, le aveva consegnato il portafogli contenente 300 lire, raccomandandole di conservarlo lei, poiché «me lo potrebbero levare o mi potrebbero ammazzare, per cui è meglio che tieni tu il denaro, ti potrebbe servire». Una testimonianza che rafforzerà l’idea secondo cui il De Vincentis temeva di essere ucciso dal Caggiano. A lungo gli inquirenti andranno alla ricerca di un reale movente che potesse giustificare quel folle assassinio, indagando nei rapporti che legavano Francesco Caggiano agli altri uomini, senza trovare nulla di concreto. Probabilmente, si legge negli atti del processo, quella raccomandazione di Nicola Caggiano alla moglie era dettata «dalla logica precauzione di chi non è abituato ad uscire di casa a sera tarda».

LA PERIZIA

A spazzare ogni dubbio la perizia psichiatrica del professore Gaetano De Rosa che definirà l’imputato un «demente precoce paranoide, delirante di tipo persecutorio, socialmente pericoloso, che avrebbe agito in preda al suo delirio», incapace, dunque, di intendere e di volere al momento del delitto. I medici sottolineeranno la sua assoluta indifferenza nei confronti dell’omicidio compiuto, il suo non mostrare segni né di pentimento, né di preoccupazione per quanto accaduto. Ne il Caggiano cercherà in alcun modo di sottrarsi alla legge, convinto della legittimità del suo comportamento. Una schizofrenia, la sua, emersa nel’ultimo periodo della permanenza in Spagna, causata anche dalle difficoltà della vita di guerra, fatta di allucinazioni e disordini sensoriali, che si manifesterà anche in carcere. Anche qui continuerà ad essere ossessionato dal’idea del complotto, denunciando la presenza di veleno nel tabacco e nei formaggi a lui somministrati. Sarà la perizia a stabilire l’assenza di qualsiasi tipo di sostanze tossiche nei cibi ingeriti dal Caggiano.
La sentenza del 30 marzo del 1940 lo dichiarerà non imputabile, avendo agito in stato d’infermità mentale. Ne ordinerà, dunque, il ricovero in un manicomio giudiziario per un termine non inferiore a 5 anni.

Rispondi