foto Michele Bortone
Con l’avvento del Cristianesimo, Lacedonia fu possesso dei monaci Benedettini ai quali era stata donata dal’Imperatore Giustiniano nel 517 d. C. Purtroppo il terremoto del 5 dicembre 1456, vigilia della festa di S. Nicola, distrusse il paese, che fu ricostruito in un luogo diverso. S. Nicola, deluse i Lacedoniesi che gli affiancarono S. Filippo Neri. Il feudatario Giannantonio Orsini la fece ricostruire nella parte sud-est della collina, chiudendola in una cinta muraria con quattro porte, tre delle quali ancora oggi esistenti. Le quattro porte, fiancheggiate da torri, erano: Porta di Sopra, presso il Palazzo Vescovile, abbattuta nel secolo scorso; Porta La Stella, nelle vicinanze delle rupi; Porta di Sotto, Porta degli Albanesi, dove il Principe Orsini fece costruire un castello per dimora signorile. Queste notizie son cose risapute, si vuole meglio definire le componenti sociali ed i beni fondiari dei feudi Doria. Volendo definire meglio l’antagonismo, le alleanze, gli aggiustamenti della componente sociale a causa della terra, vennero applicate delle regole di ferro ed ottimamente studiate per la produzione e della rendita fondiaria. Vi erano delle terre produttive direttamente gestite da feudatari del Regno e per gli enti religiosi. Relativamente alle terre coltivate a cereali nei loro feudi, essi ricevevano rendite in natura, (prodotti della terra) o in danaro (affitti), discorso che può essere esteso alle terre ecclesiastiche quanto definiamo per le terre feudali circa i rapporti di produzione. La posizione degli Orsini è del tutto imbarazzante, in particolare quella del Principe di Taranto, che domina in gran parte della Puglia e potrebbe accampare diritti sulla successione al trono di Napoli. Con la congiura del 1403, le tensioni si accentuano, dove vediamo implicate le maggiori dinastie del Regno. I Sanseverino che guidano la ribellione, vengono quasi del tutto sterminati, mentre i Ruffo subiscono numerose confische. Ladislao I teme la potenza degli Orsini del Balzo e vuole togliere di mezzo il potente Principe. Raimondello, il quale non ci sta e si ribella, questo avviene nel 1405, riesce a sostenere la guerra contro il sovrano, ma viene costretto ad abbandonare Taranto dopo un inutile assedio. Raimondello muore (1406) e la vedova Maria d’Enghien è costretta, in seguito al secondo assedio di Taranto (1407), a sposare il Re, che le confisca i feudi e la terrà in stato di semi-detenzione con i quattro figli.
Non ha una buona sorte Ladislao I, muore nel 1414 e gli succede la sorella Giovanna II. Senza eredi e sovrana di un Regno in anarchia. I rapporti tra gli Orsini del Balzo e la Regina sono freddi ed ostili. L’atteggiamento cambia dopo il fallito tentativo di usurpazione del Conte di La Marche, marito della Regina, che viene deposto dal’intervento delle truppe e dei denari di Maria Enghien e del figlio Giannantonio. Giovanna II, per sdebitarsi, ridarà il principato di Taranto a Giannantonio. Costui non ha vita facile, con le guerre franco spagnole che intaccano il patrimonio familiare, con conseguente vendita di molti feudi, per far fronte a debiti ed evitare lo spettro della povertà (diffusa). Masella, rimase erede e Signora non solo di Missanello,di Gallicchio, e di altri feudi e beni nelle pertinenze di Aversa. Masella sposò Antonello Gattola. Nacque Francesca che rimasta altresì erede, contrasse matrimonio con Filippo Coppola da Piazza di Portanova, figliolo di Francesco, Conte di Sarno, di Cariati, e grande Ammirante del Regno. Portò in dote Míssanello (da cui deriva il titolo “Marchesi di Míssanello”) e i Príncipi di Gallicchio. Dopo la morte di Antonello, Masella sposò Ttraiano Pappacoda, con cui generò (pare) Baldassarre, Signore della Città di Lacedonia. Siamo al 1480, quando avviene la catastrofe di Gallicchio per mezzo dei Turchi. Per quanto riguarda la famiglia Pappacoda, apprendiamo che, nel 1495, Re Ferdinando d’Aragona toglie i feudi di Gallicchio e Missaneilo a Traiano che si era ribellato. E li affidò a Baldassare, suo figlio. Durante il lungo periodo dei due Pappacoda (1485-1562), i feudi furono censiti per ben tre volte, in particolare nel 1545 Misanello registra 117 famiglie, Gallicchio appena 32; mentre nel 1561, Missanello enumera 183 fuochi mentre Gallicchio raggiunge il numero di 40.
Al’inizio del ‘500 le sorti feudali dei due centri dopo circa un secolo si separano. Il 1501, Lacedonia fu acquistata da Carlo Pappacoda, al prezzo di 76.500 ducati. Rocchetta da Innigo del Tufo per 72.000 ducati. Avigliano da Alessandro Ferrero per 48.000 ducati. San Fele da Giacomo Grimaldi per 69.000 ducati. L’incremento di popolazione per Lacedonia nel 1532 era di 250 fuochi (cioè famiglie), (nel 1545 di 281, nel 1561 di 299, e nel 1595 di 327.) I Pappacoda, sulle cui vicende avremo modo di occuparci piú dettagliatamente in seguito, provenivano dal’isola di Procida. Mentre Rocchetta passò sotto la potestà prima dei D’Aquino, poi dei De Cardines, dei Carocciolo d’Atripalda, dei Del Tufo, ed infine per ricongiungersi definitivamente a Lacedonia sotto la Signoria dei Doria di Melfi nel 1584. A Lacedonia i Pappacoda si erano insediati ai principi del secolo XVI e senza soluzione di continuità vi erano rimasti fino alla metà degli anni ottanta; basta pensare allarivoluzione scoppiata a Lacedonia il 1547 (è l’anno del tentativo di introdurre l’inquisizione spagnola a Napoli!) e che il Colapietra ha definito di “singolare importanza”, proprio contro Carlo Pappacoda, costretto a fuggire a Nusco con il padre Ferrante per sottrarsi alla furia della città. La rivolta che il Colapietra colloca nel quadro generale “della guerra sociale delle campagne” ancor prima del 1585 “ma non definisce seppur parziale l’atmosfera in cui viveva la società lacedoniesi, per quasi tutto il Cinquecento. È apparso…al Villari come l’inizio della rivolta antispagnola”. Conclude ancora il Colapietra, di una rivolta che trova le origini in un preciso atteggiamento antifeudale, altro che la qualifica di buoni principi che ingenuamente il Palmese attribuisce ai Pappacoda. Nel 1586 si venne a creare una situazione disastrosa, con i cambiamenti climatici delle stagioni, le epidemie nocive agli uomini e al bestiame. Nonostante la fragilità delle strutture produttive, e dell’annate insoddisfacenti agrarie.
Venne inviata al Principe Giovanni Andrea Doria, una nota sugli affitti che erano stati rinnovati in anticipo, remunerati in maniera ben superiore a quelli precedenti. Per cui, l’erario di Melfi, Gian Battista Lucatelli, feudo di Leonessa precisava: “Il feudo come si trovava coltivato continuamente non basterà ad aumentare per un prezzo, adeguato al nuovo affitto ducati Otto Centi Venticinque.” E concludeva con una preziosa annotazione: “l’aumento ha causato il prezzo che ha avuto il grano, e che ogni persona ha dato alla cultura. La portata e l’intensità della tempesta congiunturale degli anni 1585-1615, ci darannoun sistema produttivo e le vicende agrarie dei feudi dello stato e principato di Melfi nel’arco di un secolo. Alla fine del 1531 fu da Carlo V dato in signoria ad Andrea Doria, con il titolo di principe i Feudi di Melfi, Candela, Forenza e Lagoposele, ai successo di Del Doria, mediante acquisto si aggiunse Lacedonia (1584), Rocchetta (1609), Avigliano (1612), e San Fele (1613). Si venne a creare una micro-regione, definendola Volturo-Ofantina, un vasto territorio di transizione tra la Puglia e l’Appennino appulo, campano lucano. Regione di transizione tra le zone di grano, e quelle dei pascoli e di boschi, zone di latifondo e delle masserie in cui si produceva prevalentemente per il mercato. E zone mini-fondi, delle terre signorile gestite a colonia perpetua che producevano esclusivamente per l’autoconsumo. Il compasso delle masserie e del territorio di Candela redatto nel 1559, alcuni dati ci aiutano a rilevare la posizione baronale. Quel compasso rilevò 12.362 tomoli impiegati per la produzione cerealicola, 5.217 di terre salde, inserite anche loro nel processo produttivo come terre pascolative. Per cui su un territorio di complessivi 17.759 tomoli, una parte di circa 2.600 tomoli di terre seminative erano libere e pienamente disponibili nelle mani del Principe di Melfi. Ripartite in quattro masserie, (Canestrello, Media, Fontana e Acquabianca) gestite in proprio dai Signori, ma affittate in proprio dai Signori, in un territorio i circa 100 tomoli, un antico posto di dogana ed emporio di cereali, detto Scaricaturo.
Di quelle terre che rappresentavano circa la settima parte del territorio candelese, rilevato dal compasso. Una quota di 1.080 tomoli spettava al clero locale, mentre al’università due difese di circa 3.900 tomoli, destinato al pascolo dei buoi. Tutte le altre terre erano feudali, “appadronate” gestite a colonia perpetua dai vassalli candelesi. Concludendo la distribuzione del patrimonio fondiario si presenta cosi: Feudatario tomoli 2.600, Clero 1.080 tomoli, terre demaniali dell’Università 3.900 tomoli, terre feudali appadronate 9.999 tomoli. A questo mancano le terre feudali di Canestrello, San Giuliano e Tufara, gestite dalla Dogana delle pecore che nel 1959 portavano nelle casse baronali un introito di 162 ducati e dal 1564 avrebbero dato una rendita fissa annua di ducati 191 .2.7. E come se non bastasse, cadevano sotto il controllo feudale, tutte le terre che abbiamo indicate come “appradonate”. Per cui, su queste terre di anno in anno coltivate a cereali, i principi di Melfi avevano il diritto di prelievo sulla produzione di cereali.
Facendo riferimento ai documenti del 1559 sappiamo che i candelesi in quel’anno coltivarono 4.171 tomoli di terre a grano e 912 ad orzo, e che da queste culture al momento del raccolto i signori prelevarono: (3.476 tomoli di grano e 383 di orzo.) E non era finito perché erano di diritto feudale, anche il pascolo della spiga e dell’erba. Tagliate le messi, tutte le ristoppie con la spiga lasciata sui campi dalle falci dei mietitori era di pertinenza signorile, e venivano vendute per pascolo agli stessi vassalli e ai forestieri. Rendita del 1599: ducati 296.3.10. Per l’erba i principi esigevano ogni anno 60 ducati dal’università, sulle difese di Isca e Serra, e 30 ducati dai pastori abruzzesi, che usavano il pascolo del demanio di Monteroccilo. Per cui tutto il territorio candelese, coltivato e incolto, era tributario di rendita per le casse feudale. Restava fuori da questo strapotere economico il dirittogoduto dal clero locale a riscuotere la “decima”. Tale diritto doveva impensierire i produttore non i Principi di Melfi. A Lacedonia la situazione era diversa con qualche novità di qualità interessante rispetto a quelle di Lagopesole e Candela. Comparivano terreni non reddenti al Principe, e di assoluta proprietà di singoli cittadini. Una superficie 1.700 tomoli a luoghi pii ed enti ecclesiastici. Briciole nei confronti dei 21.150 tomoli complessivi del territorio lacedoniese. Di cui, oltre 288 tomoli di terre private, i signori possedevano sei difese: (Chiancarelle, Montevaccaro, Serrone, Origlio, Pauroso e Salaco,) per complessivi 3.866 tomoli, fittate a pascolo ed in parte a coltura. Anche qui i Doria avevano il diritto di prelievo sulla produzione cerealicola delle terre appadronate, e su certe terre dell’Università, compreso “l’Accinto” quando erano messo a cultura. Le pretese erano di cinque grana su ogni vigna e di grana due e mezzo su ogni canneto che ricadeva nel demanio. Ed infine il diritto signorile sul’erba e sulla spiga vigeva anche a Lacedonia.
Al’Università, oltre a “l’Accinto”spettavano quattro difese: (Macchia Focazza per dieci carri, Curci per carrì nove, Mezzana per carrì 12, e Serralonga per carrì dieci.) con superficie di 2.460 tomoli, di cui una parte di (tomoli 1.490) soggetti agli usi delle difese baronali. La confutazione corposa e la fedualità del territorio forenzese, non erano tuttavia le terre private. Pretese prima dai Carocciolo e poi dai Doria, ma erano le terre ecclesiastiche, queste possedevano terre di due parrocchie di S. Nicola e di S. Maria dei Longobardi. In alcune chiese e cappelle, i monasteri locali dei monaci virginiani, i monasteri forestieri di S.Maria di Banzi e di S. Benedetto di Venosa. Questi enti nel Cinquecento erano proprietari di terre di una superficie complessiva e redditizia di cereali ai magazzini signorili, e destinata ad espandersi grazie ai legati pii e donazioni del secolo successivo. Per cui certi amministratori baronali, con amarezza avrebbero di tempo in tempo notificato al principe di turno, la quota maggiore di rendita fondiaria finiva agli ecclesiastici. E così nel 1547 Marcantonio Doria vendette in “perpetuum” al’università i diritti d’uso di tutta la superficie boscosa, sul’erba e la spiga delle terre coltivate, per un censo annuo di 130 ducati.
La situazione di Melfi va complicandosi, ma ci viene in aiuto il compasso del suo territorio eseguito nel 1583, con l’Atto di transizione, rogato in Melfi il 23.10.1547, con ricorso presentato dal Capitolo della Cattedrale. Il Clero protestava contro l’operato della Dogana. A Forenza, Lagopesole e Lacedonia i principi di Melfi esigevano esclusivamente terraggi. A Melfi, esigevano affitti e soltanto in denaro. Mentre a Candela esigevano terraggi, affitti però in natura. Tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento, la politica feudale nelle campagne si attestava su due scelte fondamentali: In montagna ridurre a difesa, sottrarre ai vassalli, le terre pascolative e soprattutto i boschive, nei feudi in pianura e di collina ridurre a difesa ed esclusivo dominio le terre coltivate. Le espropriazioni subite dalle comunità di Lacedonia, Candela Melfi e Forenza, di conseguenza di politica baronale, sono documentabili. I Doria ereditarono e mantennero la stessa politica. Ma lasciava al colono ampia facoltà di disporre della terra, quella nelle sue mani era “appadronata” e non era cosa sua propria. Eppure era più semplice possesso. Poteva sfruttarla, darla in eredità, affittarla e perfino venderla, ma chi la ereditava, chi la prendeva in affitto, e chi l’acquistava, rimaneva obbligato a corrispondere il terraggio al signore, una sorta di diritto perpetuo. E non finiva così: Il colono che per tre anni lasciava in colto la terra, e non avesse prodotto reddito al signore, questi potevano privarlo della terra. I rapporti in regime di colonia, a Forenza i Doria, e come anche i Carocciolo, esigevano il terraggo nel misura intera, senza il prelievo commisurato, nel rapporto di uno a uno, della quantità di grano, orzo e legumi seminati. Il prelievo era maggiore, perché i coloni erano tenuti a pagare le cortesie, consegnando il prodotto in misura colma, in modo che la rendita finiva per crescere di un buon dieci per cento.
Ed i trasporti dai terraggi alle aie, ai magazzini baronali erano per intero a spese dell’università. A Lagopesole figurava esattamente la decima parte della produzione. Riscossione e trasporto erano a carico dell’azienda feudale fino al 1591. A Candela l’intera semenza, con misura a colmo fu esatta fino al raccolto del 1556 dell’anno seguente. Poi per una transazione avvenuta tra il principe, l’università e i coloni, la signoria riscosse un sesto in meno sui terraggi di grano e legumi, e un dodicesimo in meno su l’orzo e per di più a misura rasa. A Lacedonia i Doria trovarono la mezza semenza un prelievo più leggero che vigeva già in epoca angioina. Cosi annate buone poniamo rese medie di dieci tomoli di prodotto, per ogni tomolo di seme. Di solito i principi si dovevano accontentare, perché non avrebbero trovato facilmente altre braccia pronte a far produrre la terra sottratta ai coloni non redittizi. Il governatore circa le cortesie annotava: “li massari pagano quasi ogni diece uno, vale a dire da cinque tomoli in giù non si paga niente, dalli cinque in su mezzo, e come passa il sette in su se ne paga uno. Con la distribuzione fondiaria i rapporti di produzione nei feudi, si pose la questione e lo status, di colono o di fittavolo senza alcuna importanza.
A Candela si poteva essere colono, mentre a Melfi, nonostante le terre private la massa degli agricoltori, poteva essere costituita che da fittavoli, mentre a Forenza e Lacedonia, più coloni. Poiché vi erano terre private, erano assieme coloni e coltivatori di terre proprie. Tutti i conduttori di terre erano genericamente indicati come (massari,) e quelli che producevano in gran parte e soprattutto per il mercato erano (massari di campo).
Chi voleva produrre per il mercato, sia che avesse terre proprie, o che tenesse a colonia o ad affitto, finiva per passare attraverso la disponibilità di capitale. Perché oltre alla terra, doveva procurasi i mezzi di produzione, la forza lavoro, dato che per coltivare 20 tomoli di terra era necessario avere almeno due buoi, poi la semente, gli attrezzi e i salariati. Quelli meglio forniti e ben attrezzati si associavano per ampliare e rendere un’agricoltura più efficiente e produttiva, e consentire l’attesa la scelta e il momento migliore per la vendita dei prodotti. E non sempre tutto si poteva programmare perché uno dei punti strutturali più deboli dell’agricoltura, doveva rivelarsi la scarsa disponibilità di liquido da destinare ai salari. Quanto al’aspetto sociale, il compasso di Candela del 1559 e quello di Melfi del 1583 si può dedurre a chiare lettere che l’attività produttiva per il mercato, era affare di pochissime persone. Il Candelese Massenzio Rondone, (professor utriusque iuris,) a metà del Cinquecento, già da molti anni tesoriere e contabile dei Doria, prestava denaro a baroni e università, commerciava in cereali, coltivava vigne, allevava pecore, ed aveva la sua buona (masseria di campo.) Tra il 1541 e il ’53 il Rondone investì in fiscali e in crediti ad università e baroni almeno 5.000 ducati, altri 1.400 ducati investiti in società con altro sulle rendite dell’università di Melfi. Nel 1549, acquistò per 2.000 ducati una (masseria di campo) del principe Marcantonio Doria.
Possedeva diverse migliaia di pecore e tre vigne che gli producevano 80 salme di vino l’anno. (Salme, Unità di misura di capacità per i liquidi). Nel 1533-45 una fase di assestamento sulle strutture produttive, alcune annate carestose tra cui quella del 1539 grano quotavano a Lacedonia di un carlino in più rispetto a Candela e Melfi e di due carlini rispetto a Forenza e Lagoposele, data la vicinanza al’importante dogana di Avellino. Il caso di Lacedonia ci complica i problemi, quel che possiamo constatare è che durante il Cinquecento questo luogo demograficamente non diede segni di buona salute, dal 1532 al 1595 i fuochi non crebbero di 77 unità, poi diminuirono fino a tutta la prima metà del seicento. Il vescovo nella sua Relazione ad limina del 1652, avrebbe rilevato che vi erano soltanto 160 fuochi e 500 anime da comunione concludendo:(Verum nunc adeo diminuta et fere destructa et depopulata conspicitur ac carens multis necessariis pro victu et convictu hominum. Cidonia, Forenza, e Lagopesole nonostante tutto si mantenevano ben, .colse due tristi primati, fece cadere la produzione del grano al punto più basso portandolo a 80 grana il tomolo. La comunità già tassata per 400 fuochi nel 1532 fu ritassata per 405. L’università protestava presso la Sommaria per ottenere il disgravio di un certo numero di fuochi, i contadini si rifiutavano collettivamente di pagare i terraggi ai Doria.
La Sommaria intervenne a riaffermare l’obbligo ai contadini ad essere redditici al’azienda feudale è nel 1535 ridusse i fuochi a 322. Il caso di Lacedonia non ci è possibile rilevare la vicenda agrarie anteriore al 1584, l’anno in cui questo feudi di Principato Ultra fu acquistato dai Doria. Per cui nel ventennio 1591-1610 la cerealicoltura arretrò del 22-23 per cento. E questa recessione a Lacedonia avveniva nonostante le strutture produttive godessero dei vantaggi. Uno, il prelievo della rendita dalla produzione era il più basso che in tutto il principato, pagato generalmente nella misura della mezza semenza. Due, i prezzi del 1585, con prosecuzione negli anni seguenti, fenomeni metereologici e terribili carestie incisero profondamente sulla sorte dei produttori di Melfi, Candela e di tutta la Puglia: imperversando la siccità primaverile ed i venti caldi di giugno, vennero arse le messi non ancora mature, stremati i buoi, rovinati vigneti ed uliveti. Di conseguenza, al’inizio agosto, i risultati dell’annata furono definiti catastrofici. Scrisse il Governatore: “La raccolta è riuscita pessima per tutte le bande. Liprezzi dé grani si trattengono a carlini XII il tomolo”. Da ogni parte giungevano richieste di grano dalle Università dei feudi, ne chiedevano i massari, che proposero il rilascio dei terraggi e degli affitti per un anno, impegnandosi a pagarli al prezzo della prammatica di 11 carlini. Il Governatore comprese che tali richieste non potevano rimanere insoddisfatte. Assillati dal bisogno di aver sementi e dal’obbligo di pagare gli affitti , i massari dello stato di Melfi, ma non soltanto loro, con insistenza, chiesero al Viceré la moratoria, cioè il rinvio di un anno del pagamento dei debiti dell’attività produttiva. Il provvedimento alla fine giunse, ma intempestivo, il 28 ottobre quando molti massari, che non avevano modo potuto tacitare i creditori, avevano già subito dei pignoramenti.
Negli ultimi mesi dell’anno, la situazione nel Principato si presentò molto grave, tale da indurre i Prìncipi a devolvere 1.750 soldi per assistere i bisognosi, usati per comprare grano con la speranza di scongiurare la fame durante l’inverno. Come anticipato, l’avversità del tempo nel 1585 e le carestie conseguenti, incisero per diversi anni sulla sorte dei produttori. Il 1586 non riuscì a far dimenticare i danni dell’anno precedente, senza che ne intervenissero dei nuovi. Si ebbe un autunno piovoso che impedì la semina, un inverno precoce che distrusse un’infinità di pecore. Nel 1587, l’inverno si prolungò con copiose nevi che coprirono le campagne fino oltre marzo, uccidendo 400 buoi da lavoro a Melfi e 300 a Candela. La cattiva sorte continuò a perseguitare gli agricoltori e contemporaneamente infuriò la solita epidemia. Per tanti, la morte fu la liberazione della montagna dei debiti accumulati negli ultimi anni. Ci furono paesi sulle montagne della Basilicata, che non trovando grano, comprarono “vacche per mangiarsele in loco di pane”. Forenza la cui Università chiese subito grano feudale per l’annona, pur se costretta a pagarlo a 26 carlini il tomolo: “in autunno gli abitanti avevano preso a mangiare ghiande cotte nel forno, e le facevano mangiare a muli e cavalli”.
Gli esiti di quegli anni funesti tennero alto il prezzo del grano, un motivo per impedire la semina. Dal 1585 al 1595, la crisi si era così mostrata in tutta la sua complessità, facendo emergere ed aggravando gli antagonismi sociali. Il raccolto del 1592 fu mediocre, il 1595, oltre ad un rigidissimo inverno, vide in giugno i bruchi e la grandine aggredire le messi; il raccolto fu pessimo. Con il 1601, si aprì un altro triennio amaro, una primavera piovosa. Le messi diedero più paglia che grano; inoltre, più acini piccoli sporchi e scuri, non buoni da seminare. Le cattive stagioni imperversarono copiose e quasi sempre eguali e Lacedonia soffrì alquanto, dovendo anche fare i conti con i topi che, numerosi, invasero le campagne. Si presentò la stessa sorte nel 1603, con una triste raccolta, come pure nel 1605, ricordato a cagione del freddo, l’anno più nero di tutti. Nello specifico, non conosciamo cosa accadde negli anni non citati, ma una lettera del Governatore del 26 agosto 1606 illustra bene quali fossero stati i risultati. Egli dovette scrivere al Principe: nei feudi “chi offerisce di lasciar le Masserie et affitti, chi di vendere, o, di dar in pagamento li buoi, et chi d’andar volontariamente in prigione”. Ancora stessa musica nel 1612, con campagne con tanta neve e gli ovini pressoché distrutti. Per salvare i buoi e gli altri animali superstiti, fu necessario nutrirli con il grano; il raccolto finalmente si manifestò buono: sicuramente qualcuno riuscì a scacciare la maledizione! Anche a quei tempi vigevano delle regole ferree. Il dissesto finanziario della capitale Napoli, richiese ai produttori gli stessi obblighi ed oneri, che avevano imposto ed imponevano mercanti e speculatori, con i contratti (alla voce) e col prestito ad interessi. Le moratorie, arrivarono intempestive, come nel 1585, e furono vanificate con la concessione di contro moratorie ad alcuni privilegiati, I Doria, tre volte su cinque (tante furono le moratorie concesse tra il 1585 e il 1591) ottennero contro moratorie. Infine nel 1591, tutti i baroni chiesero espressamente che dalle moratorie fossero escluse le rendite feudali. Altrimenti, non sarebbero stati più in grado di pagare l’adola e il donativo, ossia le contribuzioni fiscali, per cui soltanto alla moratoria del disastrato 1606 e quella del 1611 non furono concesse deroghe. Negli anni seguenti, via via nelle campagna la depressione aumentava ed i provvedimenti governativi divennero sempre più numerosi.
Causa i disastrosi raccolti, le richieste levatesi da tutte le parti del regno, spinsero il Viceré a concedere ai massari la moratoria per un anno: nella capitale, Napoli, già nel mese di agosto, il grano costava fino a due ducati il tomolo. Speranzoso di indurre alla semina un gran numero di persone, estese il provvedimento, per alcuni mesi, ad ogni sorta di debitore che avesse deciso di seminare. Tutto sembrava che funzionasse, se non che, l’intervento estemporaneo e privo di concretezza, andava a rendere più intricati i rapporti tra creditori e debitori, poiché – osservò giustamente il governatore di Melfi “molti che non lo sono mai stati si fanno Massari, e con seminar mezzo tomolo di grano basta per non pagare suoi debiti”. Ai tempi della semina e per farla iniziare, fu presa qualche iniziativa concreta. Giungeva a Melfi il reggente Collaterale Ferrante Fornaro con 9.000 ducati della città di Napoli ad offrire ai massari al 9 carlini, e per favorire la semina, sequestrò grano agli incettatori e lo distribuì ai massari.
Al duca di Torremaggiore, che era il più grosso massaro di Puglia, ne tolse la bella cifra di 1.500 carri. E grandi quantità perfino ai cardinali Gaetano, Gesualdo e Altemps, beneficiari rispettivamente del feudo ecclesiastico di Torre Alemanna, della mensa arcivescovile di Conza e della badia di S. Michele del Vulture. Tutto sembrava decisamente funzionare. La stretta sorveglianza delle autorità riuscì in generale, durante l’inverno dell’89 a contenere il prezzo del grano fra i 13 e 14 carlini, anche se qualcuno come il governatore di Melfi, realizzò anche 16 carlini. Ma le sorprese di tutte queste benevolenze non tardarono a manifestarsi. Con l’inizio della mietitura, vennero due bandi del Fornaro. Con il primo, il reggente intenzionato a colpire la speculazione, vietò a chiunque avesse venduto grano a credito di pretendere più di 10 carlini a tomolo, consentendo soltanto una maggiorazione del 10%, come interesse sul valore del capitale. Mercanti, speculatori e baroni protestarono vivamente presso le autorità ritenendo discriminante verso coloro che avevano venduto a credito, perché non toccava chi, a prezzi superiori ai 10 carlini, avesse venduto a contanti. Con il secondo bando, il 16 giugno dell’89, il reggente ordinò ai massari, che avevano ricevuto da lui denaro della città di Napoli, di non vendere un solo acino di grano, se prima non avessero pagato il debito. Per fare rispettare il bando, inviò subito nelle campagne “quantità senza numero de Commissari …et altri guardiani alle spese di quelli massari”, dei quali si poteva temere che non pagassero. Il bando, attribuiva alla città di Napoli il diritto di riscuotere prima di ogni altro creditore: ci fu il blocco immediato del mercato cerealicolo e l’annullamento di ogni possibilità di trovare denaro a credito per cominciare o continuare la mietitura. Chi si voleva liberare da questa morsa dovette correre il rischio di vendere di contrabbando. Ma non si poteva aspettare o scegliere l’idea migliore, le messi erano pronte per le falci e i lavori procedevano a rilento. Finalmente per sbloccare una situazione così paradossale e che non avrebbe fatto altro che nuocere a chi avesse fatto credito, il Fornaro consentì ai massari di prendere denaro “alla voce”, promettendo ai creditori che nel riscuotere avrebbero avuto la precedenza anche rispetto a Napoli.
Il buon senso prevalse troppo tardi, le piogge avevano cominciato a battere con insistenza nelle campagne e il grano bagnato non trovò acquirenti. A Candela, in agosto, compravano al prezzo “alla voce” che era di 6 carlini al tomolo. Marino Caracciolo era Principe di Avellino e duca di Atripalda, due feudi importanti come mercati. Il governatore Centurione seppe che ai primi di settembre, alla fiera di Atella, dove in passato si trattavano merci ed animali per 100 mila ducati, vi furono fatti scambi appena per la decima parte. Eppure massari erano obbligati a pagare i debiti dell’anno prima e quelli dell’anno corrente. Moratoria non ce ne fu e i debitori insolventi finirono o nelle carceri della Dogana o in quelli baronali. Certe mosse parvero studiate alla perfezione. Scrisse il Governatore, “In Candela ci sono molti carcerati li quali dicono, et è così che ce li posso tener quanto voglio che essi denari non ne hanno”.
I progetti certe intenzioni, che certamente non erano soltanto suoi, vennero a svanire, perché il 9 settembre, il Centurione, in una lettera molto interessante, fugava ogni dubbio, per cui, lui stesso dovette ribadire concetti ed opinioni che aveva già espresso nei mesi precedenti e che sicuramente non erano soltanto suoi, affermando: “tutti i massari li vedo confusi e persi che non sanno dove dar del capo, perché non trovano denari nè de grani, nè de bestiami. Il loro esprimersi e il da farsi non è più creduto e rovinano il Regno. Prima che cadevano in disgrazia e nella sfortuna, ogn’uno da Napoli huomini e donne mandavano li lori denari in Puglia per compra de grani e per darli alla voce, hora ognuno si è ritirato perché non vogliono sottomettere li suoi denari a Moratorie. Levata questa comodità, questo traffico, e questo credito, per forza bisogna che ogni cosa vada a terra. La città di Napoli si prestava a soccorrere come negli anni passati, ma era diventato un vizio di forma, poiché li Comissari, li guardiani e li essatori che sono stati tanti e più delle stelle, hanno rovinato il mondo, con mille estorsioni et impedimenti che hanno fatto. Ma se pensano che la forza far ogni cosa, dubito che non li riuscirà, se ben a loro mi rimetto poiché vedono più da lontano di quello che faccio io”. A nulla servirono queste belle parole e nonostante la chiara comprensione della realtà e la caparbietà di persuadere il Principe che bisognava usar cautela nel’esazione delle rendite, per non spingere i massari ad indebitarsi fino al collo. Pressato dalle continue richieste di denaro che gli giungevano da Genova, il Governatore dovette far la sua parte, sequestrando bestiame e grano e carcerando ancora i debitori. I vassalli misero le mani sul denaro contante per la nuova semina, avuto dalla città di Napoli. Per quanto le condizione oggettive lo sconsigliassero, i mezzi usati contro i massari morosi divennero davvero implacabili.
Durante l’inverno del ’90, neppure i prezzi bassi riuscirono ad attivare il mercato del grano, che quotava 7 carlini a Lacedonia, 6 a Candela e meno di cinque a Forenza e Lagopesole. Per cui, i debitori insolventi, arrestati in settembre, erano stati messi in libertà per la semina, (per una vacanza forzata non pagata.) e poi ricacciati nelle carceri. Terribile fu lo scenario che si presentò al Governatore a Candela nel febbraio 1959, con le carceri baronali stipate di uomini in preda alla follia. Tale scena lo indusse a prendere una decisione e scrivere una lettera al Principe, che continuava a chiedere denaro e ad imporre durezza contro i vassalli: “L’altro giorno, in Candela passando per le carceri ci trovai su la porta quattro scodelle di sangue de carcerati che si erano fatti sagnare (= salassare) ed ebbi dei dubbi che fosse cosa fatta a posta, ma mi certificai che era così, e non per altro salvo perché non capivo tanta gente. Ne hebbi tal compassione che se fussero stati debitori miei li avrei liberati e con tutto questo ci ne lasciai la maggior parte”. Da quella severa constatazione e dalle cattive notizie proveniente da tutte le Province del regno e dagli altri Stati italiani circa il risultato del raccolto, Napoli pretese solo grano dai massari ai quali aveva dato denaro in prestito. Mancava la fiducia e le campagne furono ancora una volta prese d’assalto dai commissari governativi e furono messi alle aie i soliti guardiani, creature corruttibili, che consentirono di mal vendere il prodotto. Napoli reclama grano, come pure tutte le annone locali; ne chiesero a gara al Governatore di Melfi le Università del Principato. Pur non avendo il denaro per pagarlo, la paura della fame era grande ed avanzava ovunque.
A Candela un gruppo di produttori aveva rinunciato alla mietitura di 300 tomoli di messi rovinate. Rinuncia che tentarono di fare i coloni di Lacedonia, quando già era troppo tardi. I fittavoli di Leonessa che in precedenza si erano impegnati a saldare i debiti con l’amministrazione feudale, cedendo i prodotti del raccolto imminente, si precipitarono dal Governatore per rescindere il contratto rinnovato in anticipo, dichiarandosi disposti a rinunciare ai “benifici”delle arature già fatte. Ma Il Governatore rifiutò seccamente, il contratto li obbligava ancora per diversi anni. In autunno il grano dell’anno prima che non si era potuto vendere a 7 carlini, a Candela si vendeva a 15 a 16, benché le regole ne avesse fissato il prezzo. Nonostante tutto quel’accaduto e senza mettere in conto cosa sarebbe successo, il governatore, con l’aiuto delle contro moratorie, riesce a racimolare buona parte del denaro arrivato da Napoli per la semina, poté annunciare al principe di aver portato quasi in porto l’esazione delle rendite e di aver introitato 40.000 ducati. Tutto questo aveva subito un costo grave: la semina fu ridotta drasticamente. Nel principato le terre feudali a coltura diminuirono di ben 2.700 tomoli, rispetto al’anno precedente. Un tonfo così evidente lasciava perplessi un po’ tutti. A chi addossare le responsabilità? Cominciava così ad evidenziarsi una sorta di sciopero non dichiarato. Le conseguenza la mostrò bene il raccolto del 1591: la produzione cadde a picco dovunque, nonostante la decisione e la messa a cultura di 400 carri di terre doganali, che riuscirono a ingolosire i massari e si andò incontro ad un altro anno di miseria con prezzi e quote mai raggiunte. Piovvero senza dubbio prammatiche e condizioni: in Puglia fu vietata qualsiasi vendita, in Basilicata ai venditori fu fatto obbligo di rilasciare dichiarazioni scritte ai (vaticoli) ai quali vendevano grano, con l’intenzione di tagliar fuori dalla speculazione gli ecclesiastici.
Con la prammatica il prezzo del grano fu fissato a 15 carlini il tomolo, a 6 quello dell’orzo. Ma per far venire fuori il grano non (rilevato) dai produttori e dagli incettatori ne furono promessi 25 a tomolo. Supponiamo che queste furbizie e certi comportamenti indussero a liberalizzare il mercato di Napoli, e furono liberalizzati i mercati di Salerno, Avellino e Grottaminarda. Caduta a picco l’economia, liberalizzati alcuni mercati del grano, si dettarono nuove condizioni e nuove leggi, per cui, le regole si dettarono da sole. Nei feudi Doria, da varie consultazioni fra principe e governatore si giunse in condizione di dar grano ai vassalli per la semina, ma soltanto a chi lo poteva pagare all’alto prezzo di 20 carlini al tomolo per il grano e 10 per l’orzo a Forenza, 21 carlini per il grano a Lagopesole. A Candela benché fossero decisi a pagarlo al prezzo della prammatica, alle rimostranze del governatore, i vassalli rinunciarono alla protezione del commissario regio e offrirono 20 carlini. Era una continua altalena ed i prezzi salivano alle stelle, per fornire le proprie annone le università dei feudi pagarono il grano feudale da 26 fino a 30 carlini il tomolo. In tale situazione di mercato, emergeva il fenomeno dell’abbandono del’attività produttiva. Per cui lo stesso governatore intervenne più volte sul’argomento e nel’agosto del’91 lo definì con questi dettagli:
“Quando sono venuto in regno – scrisse – una massaria havea dieci massari, et una difesa dieci afittatori, et hora un massaro ha diece masserie; e si di vantaggio la Corte Regia darà li quatroni delle terre salde delle pecore questo anno a cultura si dice per cosa certa che fara, tutti li massari si ritireranno ad esse, e lasseranno le masserie ordinarie.” Ed effettivamente quando nel gennaio 1592, per scongiurare il peggio e per vincere la concorrenza baronale, il governo decise di immettere nella produzione mille carri di terre salde. A Candela si verificò un movimento di massa, quasi uno sciopero annunciato, per cui tutti i coloni decisero di abbandonare la coltura delle terre feudali. Un fenomeno originato dal fatto che le terre salde, essendo redditizie e potevano costituire il mezzo estremo per tirarsi fuori dalle difficoltà, era altro un atto di rivolta collettiva contro il potere feudale e il suo forte fiscalismo. Un progetto studiato nei minimi particolari dal governatore, che mediante l’efficace arma della giurisdizione, ricattò i coloni minacciando la confisca delle terre feudali che avrebbe consegnato ad altri. Con il consenso della Sommaria cominciò a vietare l’uso delle mezzane dell’università a quanti coltivavano terre della Dogana, facendo rientrare subito la ragione della rivolta, dimostrando ancora una volta che al’interno del feudo, potere economico e potere giurisdizionale fossero reciprocamente funzionali. L’esperienza vissuta ed i mali che affliggevano quelle terre, non trasse alcun vantaggio tra i contadini, tuttavia teatro delle tragedie era sempre Candela, quando in primavera i lavori nei campi restarono fermi, per la mancanza di cibo da dare ai salariati.
E dove era il raccolto nelle aie si ritrovarono presidiate dai commissari e governatori. Con il solito tira e molla, la vinsero i coltivatori con un rifiuto totale ad accettare i denari, anche se gli stessi avevano la garanzia della città di Napoli. La musica era sempre la stessa anche nel 1595, quando coloni e fittavoli arrivarono a rifiutare il denaro e perfino il grano offerto “alla voce”, perché ai tempi del raccolto accanto ai guardiani dell’annona napoletana sulle aie bivaccavano le guardie feudali. Tra fine ‘500 e inizio 1603, il governatore fece sapere d’aver speso 2.879 ducati per dar buoi a coloni di Candela e Lacedonia e 1.217 per darne a quelli di Lagopesole e Forenza. Si trattò degli unici interventi davvero consistenti in tal senso. L’azienda feudale concedeva grano a “rinnovare” tutte le volte che temeva che il prodotto conservato corresse pericolo di guastarsi. Quindi dava grano vecchio per riceverne del nuovo. Un’ennesima carestia quella del 1606, peggiorò la situazione nei feudi dei Doria. Alla congiuntura climatica negativa, non ancora del tutto risolta, si sovrappose il blocco totale del mercato, con una improvvisa caduta dei prezzi. Nel’autunno di quel’anno le comunità contadine, i massari, seminarono più di quanto avrebbero potuto, pagando il seme da 25 a 30 carlini a tomolo, proprio per scongiurare un’altra carestia. A nulla servirono i sacrifici e le prevenzioni adottate, era stata una semina fatta esponendosi alla sottoalimentazione. Per cui, il lungo inverno che sopravvenne, fu tempo di fame e malattie.
Nella sola Melfi, 1.680 famiglie, due terzi della popolazione, vennero iscritti nel libro delle elemosine e, come se non bastasse, la cittadina dovette sostenere anche quattro compagnie di soldati spagnoli. La solita farsa o sceneggiata era sempre in agguato, il raccolto arrivò precoce e buono. I produttori si affannarono a cercar mercanti, ma stavolta i prezzi crollarono di colpo, causa di una eccessiva abbondanza dei raccolti. Ed ancora una volta coloni e massari si trovarono impreparati, anche se in quei tempi così marcati dalla carestia, fu la prima volta che le campagne subirono un contraccolpo. I produttori avevano seminato e mangiato grano pagato a 25 e a 30 carlini e non trovarono che a vendere piccolissime partite a 13 e a 14 carlini il tomolo. Lo stesso fenomeno si ripropose nel 1608, poiché in luglio giunse una prammatica a proibire ogni vendita di frumento non destinato il fabbisogno alimentare dell’acquirente. Il mercato rimase congelato per un anno intero. E la prammatica valse quasi una moratoria, poiché non consentiva ai creditori di esigere grano dai loro debitori. Ma poi il modo per aggirare la prammatica fu trovato, fu ammesso che i creditori potessero esigere grano per via giudiziaria. Vi fu un terremoto, oltre ai danni anche la beffa. Se ne avvantaggiarono immediatamente i baroni, che poterono istruire i processi nei loro tribunali. Così l’azienda di Melfi, celebrò i processi e si aggiudicò a 9 carlini il grano dei debitori di Melfi, Lacedonia e Candela, a 8 e a 6 carlini quello dei debitori di Forenza e Lagopesole. La protesta dei massari fu grande, ma non poterono fare nulla, tranne che prendere mira e massacrare di botte nella notte diverse persone legate al’amministrazione feudale. Nel 1609, i prezzi ritornarono sui valori anteriori al 1585, 6,7,8 al massimo 10 carlini al tommolo. Ma ormai, neppure le terre salde richiamavano i massari. Nel 1611, il duca di Vietri, divenuto Commissario della Dogana, tentò di invogliare i massari nelle terre salde, riducendo il canone a 50 ducati a carro con l’interesse dell’8%, ma trovò pochi concorrenti. Tentarono lo stesso giochetto nel 1615 con poco successo, le autorità pensarono addirittura a voler concedere “tratte” per l’esportazione di un terzo del prodotto a quanti avessero coltivato terre doganali, ma fu tutto inutile.
Le fregature furono tante che si pensò ad un detto: “Mai più, mai più, mi hai truffato fino adesso, ma non me lo fai più!”. E pare che certe tendenze e dure proteste dessero i lori frutti. Per cui, la stessa azienda Doria, dovette sperimentare sulla propria pelle diverse vicende, diversi grani proveniente dagli affitti e dai terraggi ed in parte sequestrato ai debitori, si ammassò nei magazzini feudali senza poter essere venduto. (Come recita un proverbio: “Chi di spada ferisce, di spada perisce!”.) Lo constatiamo nel 1612, quando tutto è compromesso e va in declino ogni cosa, ogni progetto, per cui Giovanna Colonna, vedova del principe di Melfi, chiese ripetutamente al viceré conte Lemos, di consentirle l’esportazione di almeno 30.000 tomoli di grano, ma si senti rispondere che il raccolto non era stato tanto fertile e che una manovra del genere non poteva essere concessa. Fino al 1615 e parte del 1616, la principessa di Melfi domandò tratte in cambio della rendita di patronorato del regno che aspettava ai Doria e che lo Stato da diversi anni non riusciva a pagare.
Quando finalmente la ottenne e cercò di piazzare il grano sul mercato di Venezia e di Genova, dovette constatare che la produzione di Melfi non poteva più competere con il grano disponibile sui mercati. La crisi era più presente e il cerchio andava sempre di più a chiudersi da ogni parte sul’economia dei feudi Doria. Nel 1618, ben 39 Melfitani vennero precettati dal governatore ed obbligati a sottoscrivere l’affitto. Se confrontiamo il senso di G. B. Lucatelli, e le azioni del governatore Massa, possiamo dedurre quanto accaduto e successo in trent’anni. Produrre grano non era più conveniente, ma sempre più rischioso. Prima che fosse passato un secolo, il ciclo della cerealicoltura melfitana era bello che finito. Leonessa tolta alla pastorizia al’inizio degli anni Quaranta del Cinquecento, concessa al’agricoltura ritornava alla pastorizia. E la riconversione della rendita era imposta dagli stessi massari che la crisi aveva immiseriti. Lo stesso destino non risparmiò le masserie di Candela, che dal 1628 in poi rimasero affittate per circa un trentennio col canone di 1548 tomoli di grano l’anno e furono gestite da una “società di campo” fatta da uomini strettamente legati al’amministrazione feudale, in cui i principi di Melfi accettarono di avere una quota di partecipazione. La crisi e le cattive stagioni, imponevano scelte che tenessero conto della situazione reale: per cui l’amministrazione feudale dovette consentire ai coloni di vivere e produrre quasi in una situazione debitoria permanente. L’idea era: che fosse meglio avere un vassallo indebitato, che averne uno morto senza debiti. L’indebitamento li aveva travolti in ogni senso, perdettero le aziende e poi anche i titoli di credito che negli anni buoni erano riusciti ad acquistare. Titoli di credito che finirono nelle mani dei feudatari e nelle mani dei speculatori stranieri stabiliti nel regno.
Possiamo concludere ricordando i fatti salienti della storia di uno dei più grossi massari di Melfi, perché la storia di quel’uomo rimase come un fatto esemplare nel ricordo dei suoi concittadini. Prospero dell’Aquila, questo era il suo nome, giunse a Melfi al’inizio del 1601 come affittuario dei beni e delle rendite del cardinale Gesualdo. La sua presenza destò non poco timore al’amministrazione feudale. Nel 1605, risultava amministrazione dei Doria, come erario di Melfi. Tale ufficio fu al’origine di enormi debiti per lui (5.000 ducati). Subì il sequestro del grano e delle sue masserie, ma riuscì con molta astuzia e con qualche aiuto a continuare l’attività di massaro. Cominciò a soddisfare parte dei suoi debiti. Una sua masseria, si andava convertendo in masseria di pecore. Nel 1624, diciotto anni dopo dal’inizio della sua sfortuna, una lettera del governatore di Melfi del tempo ce lo ritrae in viaggio per Napoli, dove andava a vendere le poche argenterie che gli erano rimaste in casa. Napoli divorava le ultime reliquie di quella che un giorno era stata la ricchezza accumulata da un uomo tramite la pratica e le strategie dell’agricoltura. Non è soltanto la storia di un massaro che voleva onorare fine in fondo i suoi debiti, ma la storia e le vicissitudini di una società e di un’economia condannata dalla fine del Cinquecento al’arretratezza e alla depressione.
Una ricerca al’indietro di secoli, dove le genti di “Lacidogna” e “Roccette” intrecciarono parte della loro storia. Di Rocchetta S. Antonio nel Cinquecento non si sa molto per carenza di fonti. Qualcosa si ricava da un documento spagnolo, del tempo successivo a quello in cui, per volere dell’imperatore Carlo V, Francesco de Rupt (Monsieur de Bauri) subentrò nel possesso dei feudi a Ladislao d’Aquino. La terra di Rocchetta, in demanio dal 1564, fu venduta al Caracciolo per il prezzo di 45631 ducati, con atti rogati dai notai napoletani Marco Andrea Scoppa e Tommaso Agnello. Nel’organizzazione amministrativa e giurisdizionale la terra di Rocchetta dipende dalla R. Udienza di Montefusco, al’epoca capoluogo di Principato Ultra, in quella ecclesiastica dalla diocesi di Lacedonia, città dalla quale dista poche miglia, sino al principio del secolo, ha avuto in comune le vicende feudali. Comprando Rocchetta, Marino Caracciolo acquisiva l’intero demanio feudale e vari diritti fiscali e giurisdizionali. Formavano questo demanio alcuni corpi territoriali aperti (Serralonga e Serramezzana) ed alcune difese (Montalvaro o Montalbano, Difesa grande e Buglia), su cui i Rocchettani vantavano ab immemorabili tempore diritti di usi civici. I vari fondidemaniali possono desumersi da una relazione del notaio Vincenzo Dell’Abate, presentata nel 1810 a Vito Montieri, facente divisore dei demani comunali. Nel solo Cinquecento difatti, prima del duca di Atripalda, è stata già possesso di diversi feudatari, i menzionati d’Aquino (1501-1528) e de Rupt (1532-1540) e i de Cardines (Francina Villaut e la figlia Caterina, 1541-1563). Stando alla numerazione del 1561, è abitata da 271 fuochi (circa 1000 persone), che divengono 324 in quella del 1595, ed alcuni di essi sono Albanesi. A Candela, sino al raccolto del 1556, dal principe Doria venne esatta l’intera semenza, con misura a colmo. Il demanio Serralonga e Serramezzana, confinante con i territori di Lacedonia, con terreni privati e con la Mezzana dell’università, aveva un’estensione di moggi 1072 circa. I cittadini vi potevano erbare, acquare e pernottare.
Vi potevano altresì seminare grano, orzo, avena, fave, ma in questo caso erano tenuti a corrispondere al barone il terraggio nella misura della mezza semenza, “mezzo tomolo del genere seminato per ogni tomolo di terreno seminato”. Confermando l’antica consuetudine, le capitolazioni del 1577 stabilirono che i terreni seminati venissero solamente apprezzati – il sistema dell’apprezzo era più vantaggioso per il colono – e non misurati o, come si diceva, compassati. Dal’obbligo della corresponsione del terraggio rimanevano esenti coloro che seminavano piante primaverili o semi marzotici (ceci, cicerchie e altri legumi). Coloro che entro maggio, prevedevano un cattivo raccolto, per evitare ulteriori spese, facevano rinuncia presso l’erario del duca al terreno seminato, il cui frutto allora spettava al duca stesso. I “privilegi” concessi dal Caracciolo conserveranno la loro validità nel rapporto feudale che successivamente la terra di Rocchetta avrà con la breve signoria di Innico del Tufo (1603-1608) e con il secolare dominio della famiglia. Dell’Abate, scrivendone 1808 alla Commissione feudale, traeva argomento per sostenere che un tempo tutti e tre i fondi erano appartenuti al’università e che poi l’ex barone aveva usurpato i primi due.
Dopo l’abolizione della feudalità, la Commissione feudale, decidendo sugli ultimi “capi di gravezze” presentati da Rocchetta contro l’ex barone, il 22 marzo 1810, dichiarò difese secondo lo stato dell’attuale possesso Montalvaro, Difesa Grande e Buglia e dichiarò invece Serralonga un demanio aperto, soggetto ai pieni usi civici. Il 21 giugno dello stesso anno il consigliere di Stato Paolo Giampaolo, commissario del re per la divisione dei demani dei due Principati, stabilì che il demanio di Serralonga e Serramezzana restasse di proprietà assoluta del comune, e le difese Montalvaro, Difesa Grande e Buglia di proprietà assoluta dell’ex barone. Contro l’ordinanza di Giampaolo nel 1817, il comune presentò ricorso al Consiglio d’Intendenza del Principato Ultra, dando inizio ad un’annosa vertenza, conclusasi sfavorevolmente per Rocchetta. In quel tempo Rocchetta, già solo per fronteggiare i pagamenti fiscali, era costretta a chiedere al magnifico Ascanio Palumbo un prestito di 600 ducati all’8% ed il 10 febbraio 1577 aveva inviato a Napoli un’istanza per ottenere la necessaria autorizzazíone.
Andando indietro nella storia, con la mia ricerca, mi sono soffermato sulla crisi agraria descritto da Silvio Zotta.
Stessi argomenti ma molto dettagliati li troviamo nella Capitolazione della terra di Rocchetta S. Antonio, di Pasquale di Cicco.
Alcuni cenni sono trattati da Giovanni G. Libertazzi (La Diocesi di Lacedonia nel’Età moderna).
La mia ricerca su Lacedonia continua per scoprire le origine di un popolo alla ricerca delle sue origini.